"Se poi dedicassimo la nostra vita ad un'altra persona?".
Mi sorrise con quel suo sguardo congelato dietro gli occhiali dalla montatura d'oro.
Il viso sereno e il tratto tirato, quasi in una smorfia.
"Perché?", risposi. Il nostro colloquio durava da ore, ormai e un accordo era ben lungi dal venire.
"Non esiste un perché, infatti", rispose. Ero stanco e volevo tornare da dove ero venuto. Poi, d'un tratto,
il suo volto s'illuminò e prendendomi la mano continuò:
"E se, grazie a te, si potesse rendere il ricordo di altre persone costruttrici di pace, praticamente eterno? Non sarebbe una bella idea?".
Rimasi a riflettere.
Era un'offerta allettante, ma irrealizzabile.
"Non sono un superuomo e non aspiro ad esserlo. Vorrei, soltanto che tutti si stesse bene."
Fece una fragorosa risata.
"Non essere diffidente", disse. Poi, stiracchiando le braccia, continuò, "sai benissimo che, dopo tutto questo tempo, il tuo carattere e il mio sono trasparenti. Non sei un superuomo e non voglio che tu lo sia. Mi piacerebbe che fossi tu ad accettare la mia proposta. Ho fiducia in te. Lo sai..".
Accennai un sorriso e carezzandomi il mento le chiesi: "Va bene. Mi prendi, però, per sfinimento. Come dovrei iniziare?".
Divenne, imediatamente, seria. Pensierosa. Poi, dopo aver tratto un lungo respiro, rispose.
"Vedrai, come ti dicevo, non sarà facile. Ti odieranno e questo sarà inevitabile, tuttavia sarai amato moltisimo. Riuscirai, ne sono certa; mi fido di te".
Socchiusi gli occhi, percependo la presenza di quella donna. Poi mi adagiai contro lo schienale di quella enorme poltrona.
"Va bene. Sono pronto" e abbozzando un mezzo sorriso, aggiunsi, "anch'io mi fido di te". Sorrise e mi prese la mano.
Un dolore lancinante al cuore, entro il pettoe un suono, quasi un fischio, mi fecero impazzire. Mi sentii soffocare.
Emilia sudava e si contorceva per i dolori del travaglio. Dopo circa tre ore era tutto, praticamente, come prima. In quell'umile stanza di Wadowice, l'odore dei disinfettanti e del cloroformio erano fortissimi, mentre da enormi catini colmi d'acqua bollente, si alzavano volute di vapore che facevano trasudare anche le pareti spoglie e di un colore verdastro spento.
"Stringi i denti, Emilia. Questa volta ci siamo". Maria, la levatrice, le carezzò la mano, riprendendo a premerle il ventre per aiutarla nel parto. Olga e Theresa, le due vicine, continuavano a strofinarla con dei panni caldi, mentre muovevano velocemente le labbra in una serie di preghiere che, ormai, uscivano per istinto.
D'un tratto, il volto di Emilia si contrasse ed emise un urlo.
"Dai, dai, sta nascendo", disse Maria mentre era pronta ad accogliere fra le braccia il nascituro.
"Dai, dai ..."
Un vagito squarciò l'aria.
"E' un bel maschietto. Guarda", urlò Maria la levatrice.
"Fatemelo vedere", disse Emilia, "lo voglio qui. Fatemelo vedere". Avvolto in tre quadrati di cotone bianco, come voleva la tradizione, Maria le porse il fagottino fra le braccia.
"Amore. Amore mio". Emilia era commossa e adesso, piangeva.
"Hai pensato al nome?", le chiese, in un soffio, Maria.
"Si", rispose.
"Lo chiameremo Karol, come suo padre e Józef in onore della Sacra Famiglia".
Maria sorrise contenta dietro quegli occhiali dalla montatura d'oro e carezzando il bimbo, aggiunse: "Vedrai, saranno di certo soddisfazioni".
Poi, chiuse l'enorme borsa, salutò e uscì dalla stanza con delicatezza, quasi in silenzio.
|