Credo, caro Amico, che il ricordo che noi oggi portiamo dei nostri cari prematuramente scomparsi è un modo umano, ma non per questo meno divino, di eternare la loro memoria e il loro spirito.
Se i sepolcri foscoliani hanno il dichiarato compito di far sì che i vivi ricordino i propri morti, allora è ancor più vero che celebrare la vita - mai facile per nessuno e compromessa più nel dolore che nella gioia - è sublimare la parte più autentica e nobile che nell'umanità c'è, nonostante sia l'uomo il solo animale che muova guerra a sé stesso con il crudele fine di annientare il “nemico”. Ma il nemico siamo noi, lo diventiamo nel momento in cui non ci rendiamo conto che una vita è unica e irripetibile. Si parlava tempo fa, dei raeliani e della loro pazza idea di eternarsi attraverso la clonazione: ma quand'anche si riuscisse in una simile mostruosità scientifica, l'individuo clonato non sarebbe che una pallida copia dell'originale.
Una persona non è semplicemente un corpo, un contenitore vuoto. Una persona è molto di più d’un manichino. L'individuo si forma, diventa “di carne e di spirito” (body and soul) attraverso le esperienze che vive sulla sua propria pelle, esperienze che possono essere anche minime e insignificanti a un occhio poco attento. Portiamo un esempio pratico: il solo fatto che io venga oggi abbacinato da un raggio di sole mentre mi trovo alla finestra della mio ufficio, mi suggerisce una poesia o una riflessione, che andrà a impattare e a formare la mia vita/coscienza futura. Il fatto che io oggi abbacinato da un raggio di sole decida di scrivere o no la riflessione che mi è stata per così dire suggerita, determinerà che tipo di uomo sarò fra un minuto o fra dieci anni; poniamo dunque il caso che decida di scrivere la poesia, fra dieci anni o anche meno, o chissà quando, ricorderò d'averla scritta, mi commuoverò, la commenterò, la analizzerò, e così via.
L’esperienza di scrivere o no la poesia oggi modella il mio spirito, lo rende migliore o peggiore. Tutte le piccole o grandi esperienze che facciamo minuto dopo minuto concorrono a formare “lo spirito” (o l’anima) dell’individuo, e questo non si può clonare. Si può riprodurre il corpo, ma non le esperienze che quel corpo ha vissuto e che gl’hanno consegnato un’anima unica e irripetibile. Che senso ha dunque la clonazione? Nessuno. L’individuo clonato vivrà le sue esperienze e sarà un individuo completamente diverso dall’originale: gli somiglierà nell’aspetto, ma tutto qui, nient’altro.Noi qui oggi non avemmo purtroppo il piacere di conoscere tua Sorella.
E però qualcosa per Lei la possiamo fare: raccontarle la vita, quella vita che noi vediamo e intendiamo portandola alla tua attenzione, caro Lord Ninni, a Te che sei la sua memoria, il suo diritto a eternarsi attraverso il tuo spirito, quello d’un uomo che l’ha conosciuta e l’ha amata in maniera incondizionata.
Ristorante D’Annunzio
di Iannozzi Giuseppe
Sazio, ruttò di gusto.
Il cameriere, inappuntabile in un camice bianco a sacco, si fece dappresso al cliente: “Posso servirle qualcos’altro?” L’uomo prese fra le dita il menù in carta pergamenata e lo spazzolò con gli occhi: “Un digestivo della casa.”Fatta l’ordinazione, attese. Il tavolino era stato sparecchiato, poteva quindi aprire il giornale e nell’attesa piluccare qua e là qualche notizia. E così fece: distese i fogli freschi di stampa sulla tovaglia e tirando fuori un ruttino ancora si lasciò catturare dai fatti di cronaca. C’era un po’ di tutto, dal solito branco che violenta una ragazzina al pazzo che, di punto in bianco, stermina la famiglia al completo.L’uomo sbuffò annoiato. Cercò con l’indice puntato sulla pagina un fatto di cronaca un minimo originale ma niente, fece dunque per chiudere il Messaggero, quando fu preso alla sprovvista da un titolo che gl’era sfuggito, un trafiletto breve breve nell’angolo sinistro della pagina: “Attacco di panico e l’aereo atterra”. Un singhiozzo forte. Poi subito una risata sfacciata che fece girare verso di lui i per fortuna pochi clienti del ristorante. La faccenda era per lui oltremodo comica. Osservato si sentì in obbligo di spiegare con voce sommessa: “Una si spara un DAP e il volo si arresta”.
Quelli lo guardarono in silenzio, forse credendolo un po’ tocco; facendo finta d’aver capito, ognuno tornò poi a forchette e chiacchiere.Il digestivo non gl’era stato ancora portato. Non poteva dire d’aver mangiato male, tutt’altro: era da tempo che non mangiava così bene fuori; tuttavia adesso si sentiva un po’ appesantito.Ruttò e anche dabbasso sfiatò, dopodiché si concesse un sospiro di sollievo: era chiaro che aveva ingoiato aria ridendo.Si accarezzò lo stomaco e chiuse gl’occhi per un istante.Quando li riaprì un bicchierino pieno quasi fino all’orlo era sotto il suo naso. Annusò e gli piacque. Si portò il liquido sull’orlo delle labbra, con la lingua lo assaggiò, decise ch’era di suo gusto e lo buttò giù tutto d’un fiato. E ruttò di nuovo, forte, sì tanto da suscitare tra i tavoli un po’ di ilarità speziata di rimprovero: “Proprio un animale!”. Uscito dal locale, piazzò lo sguardo al cielo: si convinse che nonostante le nuvole grigie non c’era un immediato pericolo di precipitazioni, per cui con passo svelto ma non allarmato si diresse fino in piazza, dove vivacchiavano alcuni alberelli e delle aiuole di fiorellini stinti dall’autunno.Assiso su una panchina tutta per sé, aspettava. Aspettava nessuno. Gli procurava piacere fermarsi in un posto senza una vera necessità. E amava la gente che lo fissava chiedendosi chi fosse e perché era lì.Dalla tasca dell’impermeabile tirò fuori il giornale ciancicato, ne distese le pagine con finta cura e lo aprì ben bene davanti a sé recitando la parte del tipo misterioso in missione, in incognito.
Mentre riposava così, fingendo di leggere per lasciarsi osservare dai curiosi d’attorno, l’attenzione gli cadde su un trafiletto, sempre sulla pagina della cronaca. Al ristorante gl’era sfuggito; parlava della carne, o per essere più precisi del “piacere della carne”. Titolo furbo che attirava i boccaloni, così costretti a sorbirsi una disamina sulla macellazione in Italia. Lesse affamato, presago ch’era una questione di vita o di morte apprendere e subito.Quand’ebbe finito di leggere, il giornale gli cadde di mano.Era nel panico.Sui sassi e alcuni ciuffetti d’erba il quotidiano riposava al pari d’un corpo morto, che il vento che eppur c’era non riusciva a sfogliare.L’uomo aveva rimesso anche l’anima, ma non era bastato. Nello stomaco i succhi gastrici gli bruciavano il petto, l’esofago la gola e la lingua pure. Continuava a vomitare bile, solo quella; e le gambe gl’erano diventate così fiacche che camminare gl’era impossibile.In ufficio non si fece vedere per parecchi giorni. Quando poi ritornò era sol più l’ombra di sé stesso, occhiaie profonde, guance scavate, faccia sporca di barba.Giocò d’anticipo annunciando con voce sibilante d’oltretomba che andava tutto bene; che aveva solo bisogno di riposo e di mangiare leggero, in bianco. Non uno gli fece domande, ma era ormai di dominio pubblico che il ristorante D’Annunzio era stato chiuso: da quanto s’era appreso dalle colonne del Messaggero, in quel buco si serviva carne di cane e di gatto.
In fondo non sarebbe stato poi così grave, perlomeno per gli stomaci abituati a digerire qualsiasi porcheria o quasi; tuttavia pareva che non di rado venisse servita anche carne umana, un modo piuttosto semplice per far sparire i cadaveri lasciando davvero poche tracce in giro, e guadagnandoci sù qualche spicciolo extra.
Sulle pagine di cronaca veniva assicurato ai frequentatori del ristorante che si era intervenuti appena in tempo, prima che venisse servita in tavola carne umana. Però ci credeva nessuno!
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