L 'Antica Dama: Revenge  
di Ninni Raimondi 
17 Ottobre 2002 
 
 
 
 
Tutti i peggiori ipocriti, accesi della medesima rabbia, che passa per zelo del diritto divino,  
si diedero a perseguitare ovunque uomini insigni per onestà e famosi per virtù, e perciò malvisti dal popolo,  
condannandone pubblicamente le opinioni e sollevando contro di essi l’odio furioso delle moltitudini.  
E, poiché questa procace licenza si adombra dell’aspetto della religione, non si può facilmente frenare. 
(BARUCH SPINOZA, Trattato teologico-politico) 
 
 
 
 
 
 
Quella notte, avemmo un terribile sogno – se così può dirsi un’avventura del corpo e dello spirito vissuta nel sonno più profondo, nel più completo distacco, in presenza tangibile, ma senza che ci vedessimo agire nello spazio fuori dagli eventi; giacché teatro di questi era la nostra propria anima, ed essi v’irrompevano dall’esterno spazzando la resistenza – una resistenza emanante dal profondo dello spirito – trascorrendo come un vortice, e lasciandoci alle spalle, devastati, distrutti, l’intero edificio della nostra vita e della nostra cultura. 
Paura fu l’inizio, paura e voluttà, e curiosità atterrita di ciò che sarebbe accaduto. Regnava la notte, ma in noi vegliavano i sensi, perché da remote stanze si avvicinava un frastuono, un tumulto, un miscuglio di suoni e squilla, e clangori, e sordi boati, e striduli evviva, e il cupo lamento di sibili strascicati – il tutto frammisto e, con orrenda dolcezza – coperto dal gemito fondo, insistente, morboso di un flauto, un canto lascivo che ammaliava i precordi. Ma v’era una parola a noi nota, oscura, ma espressiva del fatto imminente: “Il dio straniero”. 
Un fumoso bagliore si accese e riconoscemmo un personaggio alpestre. 
In luci rotte da cime boscose, fra tronchi coperti di muschio, volteggiarono, rovinarono turbinosamente uomini e bestie, a frotte, a frenetiche torme – e il pendio fu sommerso da corpi, da fiamme, da un tumulto, da una vorticosa tregenda. 
Figure di donne incespicanti in abiti lunghi scrollavano tamburi a sonagli, al di sopra delle loro teste rovesciate all’indietro nel pianto, brandivano fiaccole ardenti, sguainavano pugnali, afferravano serpi rattorte o, ululando, si reggevano i seni fra le mani.
Uomini muniti di corna, avvolte in pellicce le membra villose, curvavan la nuca, alzavan le braccia e le gambe, tambureggiavano su bacili di bronzo, menavano colpi furiosi sui timpani, mentre imberbi fanciulli pungolavano arieti con verghe fronzute e aggrappati alle corna, fra strilli di gioia, se ne lasciavano trascinare nel salto. 
E urlavano, gli ebbri, quel loro grido di consonanti molli e di gridolini strascicati, dolce insieme e selvaggio, un grido che mai s’era udito, e qua saliva nel cielo come l’urlo di un cervo, laggiù era ripreso da un coro di voci in lascivo tripudio, eccitava la danza, snodava le membra, ignorava battute d’arresto. Ma su tutto imperava, a tutto frammista, la nota profonda, lusinghevole del flauto. 
 
Non allettava, con sfacciata insistenza, noi medesimi (da sempre pur riluttanti del dramma) alla festa, agli eccessi del sacrificio estremo? 
Grande era la nostra ripugnanza, grande la nostra paura, sincera la volontà di difendere il nostro io fino all’ultimo, contro l’orrore, il nemico dello spirito, fermo e dignitoso? Ma il frastuono, l’urlio, riecheggiati dalle pareti di roccia, crescevano, ingigantivano e si dilatavano in travolgente delirio. Vapori ottenebravano i sensi, un lezzo caprino, un fetore di corpi ansimanti, un tanfo come d’acque corrotte e un altro e ben noto: un oscuro lezzo di piaghe e di morbo diffuso. 
Ai colpi di timpano ci rombava il cuore; girava la testa. In un impeto d’ira, di furor cieco, di voluttà inebriante, l’anima nostra si struggeva d‘unirsi alla danza selvaggia del nume. 
Il simbolo osceno, ligneo, enorme, fu scoperto ed eretto. 
Più sfrenati, tutti urlarono la parola di rito. 
Schiumando, smaniando, si eccitavan l’un l’altro con mosse lascive, con mani lubriche; gemendo e ridendo,si flagellavano le carni, si leccavano il sangue dalle membra. 
Ma con essi ed in essi, posseduto dal dio, era colui che dormiva. 
Essi, anzi, erano in noi quando si avventarono sulle belve sbranando, uccidendo, divorandone brandelli fumanti. Quando, sul muschio sconvolto, ebbe inizio in onore del dio, un furioso accoppiarsi di tutti con tutti e la nostra anima gustò la lussuria; vertigine di un’abiezione totale. 
Da questo sogno, afflitti, ci ridestammo snervati, distrutti, irrimediabilmente schiavi del demone. 
Non temevamo più gli sguardi indagatori. 
Non ci importava di esporci a sospetti. 
D’altronde, fuggivano tutti al solo accenno. 
La verità sembrava ormai trapelata. 
Il panico, malgrado il fronte comune degli interessati, era ormai incontenibile. 
Ma l’Antica Dama, dalla collana di perle, restava li a osservare, sia che le voci pervenissero al suo orecchio, sia che fosse troppo orgogliosa e intrepida per cedere. 
Restava Milady e al Milord, nel suo incantesimo, talvolta sembrava che la fuga e la morte potessero disperdere all’intorno ogni vita indiscreta per lasciarlo solo con quella donna su quell’isola del mondo – anzi, quando al mattino, alla spiaggia, il suo sguardo posava greve, insistente, privo di ritegno, sull’amata. 
Quando al tramonto la rincorreva, furtivo, per le piccole stradine dove l’abietta moria serpeggiava; l’infamia gli appariva ricca di promesse; la legge morale futile e caduca. 
Come ogni amante, l’Antica Dama, desiderava di piacere e un’amara paura di non riuscirvi la assaliva. Introduceva nel vestiario questa o quella nota festosa e giovanile, ostentava gioielli, ricorreva a profumi, dedicava più ore del giorno alla toilette, scendeva a pranzo agghindata, eccitata, vibrante. 
Di fronte alla nostra persona di cui s’era invaghita, provava tristezza per il proprio corpo sulla via del declino. 
La vista dei propri capelli e del volto, allo specchio, la riempiva di sconforto. Ansiosa di distendersi fisicamente, di riacquistar turgidezza e vigoria, era divenuta assidua della parrucchiera. 
Avvolta nel bianco asciugatoio, riversa sullo schienale sotto le mani solerti della pettegola, guardava angosciata l’immagine riflessa allo specchio. 
– Un capello bianco – disse, storcendo la bocca. 
– Un tantino – rispose l’altra – colpa di una certa trascuratezza, di un’indifferenza per le cose esteriori che, spiegabile in personaggi importanti, non è però incondizionatamente da lodare. Tanto più che, le persone, i pregiudizi in fatto di naturalezza o di artificio mal si addicono. Se il virtuoso sdegno di certe persone per l’arte cosmetica si estendesse, come sarebbe logico, fino ala cura della pelle, lo scandalo non sarebbe lieve. In definitiva, abbiamo gli anni che il nostro spirito, il nostro cuore si sentono e in certi casi, i capelli grigi, mentiscono assai più che la tanto deprecata tintura. Nel caso suo, Milady, si ha diritto alla propria tinta naturale. Permettete che ve la ridoni? 
– In che modo? – chiese la dama. 
Allora, la maestra d’eloquenza le lavò la testa con due lozioni diverse, l’una chiara e l’altra scura e i capelli ridivennero castani come in gioventù. 
Poi, col ferro da ricci, li ondulò in morbide pieghe, fece un passo indietro e rimirò l’opera compiuta. 
E, come chi non può mai finire e proclamarsi soddisfatto, passò con fervore, sempre nuovo, da una manipolazione all’altra. Comodamente distesa, impotente a difendersi, anzi animata da eccitanti speranze per ciò che sarebbe avvenuto, l’antica Dama vedeva nello specchio le sopracciglia inarcarsi più regolari e decise, il taglio degli occhi allungarsi, la loro lucentezza farsi più intensa grazie a un’ombreggiatura delle palpebre. Vide più sotto, dove la pelle era lucida-bruniccia, trasparire, morbidamente soffuso, un delicato carminio; le labbra già esangui farsi piene di un color di lampone; le pieghe delle guance e della bocca e le rughe degli occhi sparire sotto creme e belletti. Si vide dinnanzi (e il cuore le batté) una giovane donna fiorente. 
Infine, l’artista si proclamò soddisfatta e, come d’uso, ringraziò con gentilezza strisciante colei che aveva servito: 
– Appena un ritocco – disse, dando un’ultima mano all’aspetto esterno della dama. – Adesso, mia signora, può tranquillamente innamorarsi. 
E illusa se ne andò come in estasi, smarrita e tremante.
 
 
Il viso luminoso e il suo cappello di paglia, a larghe tese, circondato da un nastro variopinto. 
S’era levato un tiepido vento di burrasca; pioveva poco e rado, ma l’aria era umida, densa, satura di esalazioni mefitiche provenienti dalla vicina palude. Fremiti, sibili, ronzii, rintronavano gli orecchi, e, alla febbricitante sotto il belletto, sembrava che i maligni spiriti del vento popolassero lo spazio, come le turpi fiere che squartano, rodono, insozzano il cibo del condannato. 
Era consapevole di quanto avvenuto qualche giorno prima. 
Il sesso orale offerto. 
Il trasporto con il quale aveva intrattenuto Milord. La gioia nel sentire, quel sesso caldo, fra le labbra e in gola. Come quando ebbe, per la prima volta, quella congiunzione di sessi, tanto vietata quanto dolce e cattivante. Dolorosa e tra le pieghe dei gemiti, odorosa di mille gioie, vereconde, da scoprire… 
Si sentiva insozzata e reietta da Dio. 
Ma non per questo penitente e peccatrice. Pronta a conoscere, ad un cenno di Milord, tutte quelle voluttuose sfumature legate al piacere proibito e pronta ad accoglierlo, altre innumerevoli volte fra le guance arrossate dalla passione e nel sesso segreto avverso natura. 
Lo desiderava, adesso, oltre e oltre. Oltre il peccato e oltre. 
Inebriata da tutto questo, trascinata innanzi al suo corpo maturo, sbattuta come un fuscello dalla passione, l’innamorata rincorreva, furtiva, ancora quell’indegna speranza. 
La testa le bruciava; il corpo era intriso di un sudore appiccicoso. La nuca era percorsa da fremiti e una sete intollerabile l’angustiava. 
Si guardò attorno in cerca di un ristoro qualsiasi, di un immediato refrigerio. A un botteghino di frutta e verdura comprò delle fragole, molto mature e sfatte e ne mangiò camminando. Una piazzetta, deserta e come perduta dall’oblio, le si aprì dinnanzi. 
E lo riconobbe. 
Milord era lì in quella piazzetta deserta e piena di umida nebbia racchiusa nelle prime ore di un pomeriggio, senza sole e silenzioso. 
Era proprio in quel luogo che, una settimana prima, aveva compiuto quel segreto e rapido amore orale, sui gradini e dietro il pozzo in pietra. 
Lui era lì, seduto su quei gradini con lo sguardo spento e rivolto al vuoto. 
Triste e solitario come da sempre conosciuto. 
Infatti, egli non s’avvide della sua presenza. 
Si sedette sui gradini del pozzo e appoggiò la testa al parapetto di pietra. Regnava il silenzio. L’erba cresceva fra le lastre del selciato e intorno erano sparsi rifiuti. Nel cerchio di case slavate dal tempo e di altezza diseguale, una ve n’era che sembrava un palazzo, con finestre ad ogiva dietro e quali regnava il vuoto e balconcini vegliati da leoni. Al pianterreno di un’altra si apriva una pescheria, A tratti, zaffate di vento caldo, portavano odore di pesce. 
Lì sedeva il milord, abbassate le palpebre, da sotto le quali solo a tratti guizzava, per nascondersi subito, uno sguardo obliquo, ironico e perplesso; e le sue labbra, avvivate d’un rosso carne, davano forma ai brani staccati di logica sognante che, il cervello assopito, produceva. 
Mi osservò, guardandomi. 
Poi, serio, accennò. 
 
 
Giacché la bellezza, mia signora, la bellezza da sola è divina e visibile a un tempo, e perciò anche la via del sensibile essa è, mia dolce signora, la via dell’artista allo spirito. Ma credete voi, adorata, che attinga saggezza e vera dignità di uomo colui che la via dello spirito conduce per il mondo dei sensi? Oppure non credete, piuttosto (lasciammo a voi la libertà di decidere) che sia questo un cammino dolce e rischioso, di traviamenti e di peccati, al cui termine può soltanto trovarsi l’errore? Giacché, dovete sapere che noi poeti non possiamo seguire la via della bellezza senza che Eros si accompagni a noi e ci s’imponga a guida, e quand’anche fossimo eroi a modo nostro e disciplinati guerrieri, saremmo pur tuttavia confusi, perché ciò che c’innalza è la passione, e l’oggetto del nostro desiderio segreto non può non restare l’amore. 
Tale è la nostra gioia e disperazione. 
Comprenderete, allora, che a noi poeti non è dato raggiungere né dignità, né saggezza? Che dobbiamo, necessariamente, rimaner dissoluti, avventurieri del sentimento? La maestria del nostro stile è menzogna ed inganno; la nostra gloria e gli onori di cui ci si copre una farsa; la fiducia del pubblico il colmo del ridicolo; l’educazione del popolo e della gioventù per mezzo dell’arte, un’impresa arrischiata e da mettere al bando. 
Come, infatti, potrebbe educare chi reca in se l’innata, naturale, incorreggibile tendenza all’abisso? 
Rinnegarlo vorremmo, l’abisso e conquistar dignità ma, dovunque volgemmo lo sguardo, esso ci attrae.
Rinunziamo dunque, mia signora, alla conoscenza che dissolve. Perché la conoscenza, Milady, non possiede dignità né rigore. La conoscenza sa, comprende, perdona, è priva di decoro e di forma. 
Essa ha simpatia per l’abisso. 
 
Essa è l’abisso. 
E con le mani in grembo, lasciai che gli occhi si perdessero nelle lontananze e che lo sguardo scivolasse, svanisse, si frangesse nella caligine, uniforme, dello spazio deserto tra il mio cuore e la sua morte. 
Ormai il dio, dalle guance di fuoco, guidava nudo negli spazi celesti la rutilante quadriglia e la sua bionda chioma ondeggiava al libeccio, improvvisamente calato. 
Ora o mai più. 
 
Chiusi gli occhi e mi vidi, nell’ultimo saluto al mondo, volteggiare e lanciarmi oltre il parapetto di quel lungo e antico ponte, dentro il buio dell’abisso e oltre l’eternità. 
 
Finalmente in silenzio. 
Finalmente sereno. 
Adieu.