L 'Antica Dama: L'epilogo
 
 
 
La nebbia mulinava attorno al malconcio autobus, traballante e molto simile a uno scatolone. 
Era l'estate del 1931 e quel veicolo era già vecchio di almeno vent'anni. Si trattava, sicuramente, del primo modello costruito da quella Compagnia, pensai, mentre, avvinghiato al sedile davanti, osservavo l'autista che affrontava l'ennesima curva di quella strada di montagna fischiettando con noncuranza un motivetto allegro e monotono. La vettura avrebbe potuto portare una ventina di persone ma, adesso, eravamo soltanto io e lui. La Cittadella era il capolinea e l'avremmo raggiunta in un paio d'ore. I passeggeri che avevano viaggiato con me, carichi di merci acquistate nei mercati della Capitale, erano già scesi uno a uno nei vari villaggi disseminati ai piedi dei Monti Freddi. Adesso, però, non vi erano più villaggi; vi erano solo foreste di pini arroccate ai due lati di quella strada dissestata e una leggera nebbia che s’insinuava fra gli alberi alle prime ombre della sera. Un paesaggio piuttosto inquietante e tipico di tutte le storie che si raccontavano in quella regione. Come se l'autista avesse letto nei miei pensieri, lanciando un'occhiata verso lo specchietto retrovisore e sfoggiando un tedesco stentato (la lingua che la maggior parte degli abitanti usa con i forestieri), disse: "Siete davvero fortunato,Signore, a trovarvi a viaggiare verso la Cittadella questo mese, anziché il prossimo. La Compagnia sta per interrompere questo servizio". 
"Veramente?", domandai. "Non capisco perché. Forse non ci sono più passeggeri?".  
L'autista scrollò le spalle. 
"Poche persone si avventurano così lontano, Signore", disse dopo una lunga pausa. "Quelli che vivono qui, come gli abitanti dei villaggi che abbiamo oltrepassato da ore, si allontanano molto raramente".
 
 
 
 
 
 
 
 
Dopo un altro prolungato silenzio, aggiunse: 
"Sono tipi strani gli abitanti della Cittadella. Io vengo dalla Capitale ricca di vigneti, di verdi colline, di sole e di gente allegra e alla mano, ma qui ... ". 
Simulò un sonoro brivido, guardando verso le foreste infestate dalla nebbia. 
"Da parte mia non posso essere che lieto se la Compagnia interrompe il servizio per la Cittadella".Continuammo il viaggio in silenzio per un po'; la nebbia, ora, si era lievemente diradata, rendendo visibile il freddo cerchio della luna sospeso proprio sopra il picco chiamato Fortescuro, il più alto fra i Monti. 
"E Voi, Signore?", domandò l'autista con un tono di voce vagamente sospettoso. "Cosa vi spinge in uno sperduto villaggio come la Cittadella? Non può esserci nulla d’interessante ... ".  
"Il lago", replicai. "Il Lago Bianco.". 
 
Quegli occhi sospettosi continuavano a fissarmi nello specchietto. 
"Non è certo un granché come lago", commentò l'autista. "Troppo freddo per nuotarci. Dicono che neppure i pesci possono viverci". 
"Non è il lago in sé che m’interessa", spiegai. "So che c'è un'isola là in mezzo, da qualche parte. Quella è la mia destinazione ... buon Dio! Attento!", gridai all'improvviso.  
L'autobus aveva sbandato violentemente sulla sinistra, uscendo dalla strada e lanciandosi verso un folto gruppo di pini. L'autista sterzò con vigore per evitare i tronchi: Fu un miracolo se riuscì solo a sfiorarli. Dopo una breve corsa accidentata sopra uno spiazzo roccioso, fu in grado di ricondurre la vettura sulla carreggiata. 
"Cristo Santo, amico, ma terrorizzate sempre così i vostri passeggeri?", urlai irritato. 
"Vi domando scusa, Signore, ma siete stato voi a terrorizzare me". 
"Cosa ho detto che ... ". 
"Non sapete Signore, che nessuno è andato su quell'isola da oltre due secoli?". 
"E' semplicemente ridicolo!", risposi. "Io so che è abitata da una famiglia che ne vanta la proprietà. Sono stato invitato. Ecco, ho la loro lettera", dissi infilando una mano in tasca. 
"Sì, l'isola è abitata da un’antica e nobile famiglia, Signore", replicò l'autista. "ma da nessun altro. Non hanno mai lasciato l'isola e nessuno è mai andato da loro. Vi ripeto, Signore, che sarò molto, molto lieto, quando la Compagnia mi chiederà di fare per l'ultima volta il viaggio fino alla Cittadella.". 
 
Sorrisi, fra me, divertito. 
Era troppo bello perché fosse vero; sembrava l'inizio della storia di Dracula. Ricordavo perfettamente la sequenza iniziale del film "Nosferatu", del 1922, quando la diligenza sfrecciava attraverso la foresta transilvana diretta al castello del Conte: l'avevo rivisto giusto l'anno prima, assieme ai miei compagni di studi. 
Fantastico. 
Attraverso il finestrino lanciai alcuni sguardi incantati alla nebbia, agli alberi silenziosi che saettavano di fianco all'autobus e agli occasionali bagliori della luna piena. La vettura ebbe un leggero sbandamento quando il sinistro ululato di un lupo echeggiò nelle vicinanze. Ciò che eccitava gli animali, naturalmente, era il plenilunio, ma il povero autista superstizioso non lo avrebbe mai creduto.  
“Scusate, intendete dire che non ci sono vie di comunicazione fra l’isola e il villaggio? Dopotutto io ho spedito e ricevuto lettere …”. 
L’autista scrollò le spalle. “Io non so niente”, borbottò in tono brusco. “Questa gente non mi dice mai niente. In sostanza sono uno straniero, come voi. Trascorro la notte nella locanda e poi riparto per la Capitale.”. 
“Ma perché tanta gente ha paura dell’isola? C’entra qualcosa con la famiglia che lì vi abita?”. 
Silenzio. L’autobus, con il suo lento arrancare fra quelle stradine polverose e sperdute, sbuffava come un mantice. Giunti alla Cittadella scesi, con un profondo senso di tristezza, nella minuscola piazza. La nebbia era così densa, quasi viscosa, che si avviluppava lungo le gambe. 
 
“La locanda è in fondo a questa via”, disse l’autista. “Vi accompagno.”. 
 
Sbirciai il pesante orologio da taschino. “Ma sono le otto”, protestai, “preferirei arrivare alla mia destinazione questa notte stessa, sono atteso.”, pensando alle misere condizioni in cui versava il mio portafoglio, “probabilmente c’è già un letto pronto per me”. 
“Sull’isola?”, sibilò l’autista con la faccia quasi appiccicata alla mia. “Ma siete pazzo? E anche ammesso che lo siate, nessuno vi porterebbe là”. 
“Neppure se la nebbia si diradasse?” 
“La nebbia non si dirada mai su questi laghi di montagna”, fu la risposta. 
“Neppure durante il giorno?”. 
“Mai!” 
“Com’è possibile navigare, allora?” 
“Nessuno naviga, infatti. Nessuno si avventura su quel lago. Ve l’ho già detto!”. 
L’autista spinse la porta della locanda ed entrò. Lo seguii. La luce improvvisa mi accecò per qualche istante, ma poi il calore, la musica e le voci allegre che risuonavano nel locale, mi accolsero infondendomi un grande benessere. Tenendo, ancora, le palpebre socchiuse per abituarmi alla luce, m’infilai in una stanza con tavoli e panche, perlopiù occupate da vecchi paesani intenti a bere da grossi boccali, a giocare a carte, o a pizzicare la sorridente ostessa che passava fra loro. 
In un angolo, dove un cane sonnecchiava davanti ad un caminetto scoppiettante, alcune persone stavano sedute a chiacchierare con in capo un berretto floscio da cacciatore, tipico della regione, fumando lunghe pipe di argilla e ascoltando distrattamente un violinista e un suonatore di cetra. Nessuno mi prestò la benché minima attenzione mentre l’autista, dirigendosi verso il banco, incontrò la locandiera che, confusamente, ci disse: ”Desiderate signori?”. 
“Un’informazione”, intervenni prima che l’autista potesse ordinare da bere. 
“Parlate tedesco, Italiano?”, chiesi avvicinandomi alla donna. Udii la mia voce echeggiare, sopra le altre, tanto da essere troppo nervosa, dopo di che la donna annuì sussurrando: ”Italiano”.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
  
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Vorrei sapere qualcosa a proposito dell’isola in mezzo al lago …”. 
La musica, le voci, le risa: tutto s’interruppe come se qualcuno avesse fatto scattare un interruttore. Tutte le facce si voltarono verso di me e su nessuna si poteva leggere un’espressione amichevole. Il tempo si fermò dietro al crepitio del fuoco nel caminetto. 
“Chi siete? Cosa siete venuto a fare qui?”, chiese un uomo enorme dal collo taurino, con un grembiule legato in vita, uscendo da dietro il bancone. 
“L’ho portato io dalla Capitale”, intervenne nervosamente l’autista. “Dice che … Voi capite …”. Fece alcuni cenni indicando verso l’esterno. “L’hanno chiamato; l’hanno invitato …”. 
“Voi non immischiatevi”, fece il gestore piazzandosi di fianco alla moglie, che mi fissava terrorizzata. 
 
“Il mio nome è Lord Ninni”, risposi veramente irritato da tutta quella faccenda. “Sono stato invitato per qualche tempo presso i proprietari dell’isola e …”. 
Non appena ebbi pronunciato il luogo di destinazione, si levò un generale scricchiolio di sedie contro il pavimento, mentre i presenti cominciarono a dirigersi verso l’uscita. 
“Ma tutto ciò è ridicolo!”, esclamai. “Credetemi. Ho ricevuto un corretto e gradevole invito. Devo raggiungere l’isola. Sono un po’ a corto di denaro, sono affaticato e ne ho abbastanza di tutti questi misteri e superstizioni! Insomma, posso noleggiare un battello, o no?”. 
“Non ci sono battelli”, replicò l’oste. “Nessuno va mai sull’isola”. 
“E allora come diavolo ha fatto questa lettera ad arrivarmi?”, gridai estraendo la busta da una tasca e sventolandola sotto il naso dell’uomo. “E’ forse una speciale consegna dall’aldilà questa? Signori, siete davvero ridicoli!”. 
Un gruppetto di uomini che ancora sostava dentro la locanda, si accalcò rapidamente attorno a me per vedere la lettera che avevo ricevuto. 
 
“Così il Vecchio è ancora vivo!”, esclamò un tipo con due occhi enormi. “Quanti ne saranno rimasti?”. 
“E chi lo sa?”, borbottò accigliato il locandiere. “La morte non significa nulla, in certi casi …”. 
 
“Volete per cortesia smettere di parlare per enigmi?”, sbottai. “E spiegatemi il mistero di questa lettera, se potete!”. 
“Quest’uomo”, spiegò l’oste, indicando la firma sul foglio, “ha un battello. Una o due volte il mese viene al villaggio per fare rifornimenti.”. 
“Dunque, voi dovete trattare con loro”. 
"No!” fu la risposta. “Quando udiamo il motore della sua lancia, noi ci nascondiamo nelle nostre case e sbarriamo le porte. Ma lui ha del denaro da spendere … denaro di cui noi abbiamo necessità … così gli lasciamo aperte le nostre botteghe. Preleva ciò di cui ha bisogno, ritira la posta, deposita quella che intende spedire e lascia il denaro sui banchi”. 
“E da quanto tempo va avanti così, questo stupido gioco?”. 
“Quando sono nato era già così”, rispose l’uomo. “E anche quando nacque mio padre”.Amareggiato scossi la testa. “Sono sicuro che non valga a niente domandarvi le ragioni di tutto ciò. Probabilmente non le ricordate più neppure voi. E’ diventata, ormai, una tradizione locale. Quella povera gente …” e mi  tolsi il cappotto che poggiai a fianco del bastone da passeggio su una panca; mi sedetti. “Che razza di vita! … “. 
 
Ero avvilito, stanco e turbato da quegl’ ultimi eventi. “Che viaggio stressante”, sospirai. 
 
"Bene, buon uomo: vedo che dovrò trascorrere la notte qui da voi”, dissi a voce alta e rivolto al locandiere. “Sono certo che la lancia non potrà raggiungere la terraferma con questo nebbione. Mi rincresce di avervi guastato gli affari questa sera e so che ordinare una bottiglia di vino non vi arricchirà di certo, ma Dio sa se ne ho bisogno, adesso”. Poi, rammentandomi delle mie scarse finanze aggiunsi: “Qual è la qualità meno costosa che avete’”. L’oste scosse il capo. “No, niente vino” disse. “Non per voi. Vi porterò del brandy e del migliore. Offre la casa. Iddio non mi perdonerebbe se accettassi del denaro da un condannato”. 
“Condannato? Di che state parlando?”. 
 
L’autista, in quel frangente, mi pose tristemente una mano sulla spalla dicendo: “Intende dire che state per andare sull’isola. Ecco tutto!”. Mi risvegliai dopo un sonno agitato e discontinuo ritrovandomi in un silenzio profondissimo, innaturale. Non riuscivo ad udire alcun rumore, neppure ovattato, provenire dal resto del villaggio. Nulla si muoveva. Mi portai alla finestra e guardai fuori.  
 
Nebbia, ancora nebbia, fittissima.
Non riuscivo a scorgere neppure il lago. Niente di niente. Poi, inaspettatamente, udii un suono lontano che si andava avvicinando. Era una lancia a motore! Mi vestii in tutta fretta, raccolsi le mie cose e scesi frettolosamente le scale. Nella locanda non vi era anima viva; neppure lungo la strada. Che strano! Poi, ricordai le parole dell’oste: “Quando la lancia arriva i paesani si nascondono! “. Lasciai alcune monete sul bancone e attraversai, rapidamente, la piazza seguendo il ronzio di quel motore sempre più vicino. Mi ritrovai, poco dopo, alquanto affannato, sulle rive del lago. Cercavo nella nebbia quell’imbarcazione. La superficie era assolutamente calma, senza la minima increspatura. Era contrario alle leggi della natura che neppure un movimento, un debole sciabordio, lambisse le sponde. Tra l’altro ricordai di aver letto, sull’atlante cartografico, che quel lago era molto esteso, addirittura il più grande fra tutti quelli che punteggiavano quella immensa regione montuosa. Mi colse un brivido profondo ripensando al racconto che il locandiere mi aveva fatto la sera precedente. Un gruppo di scienziati della capitale aveva visitato quel lago nel 1908, ma neppure con le apparecchiature più sofisticate erano stati in grado di misurarne la profondità. 
“La fune con lo scandaglio terminò prima di aver toccato il fondo”, aveva detto l’uomo. “Qualcuno sostiene, addirittura, che non ci sia un fondo …”.“Ma che mi dite dell’isola?”, gli domandai. 
“Le isole, a quanto mi risulta, non galleggiano”; ma lo sguardo che l’oste mi aveva rivolto poteva significare: ”per quel che ne so, quell’isola può anche galleggiare, invece!”.Tutto questo aveva il sapore e il sentore dell’assurdo. 
Stavo sognando o ero desto?Udì distintamente un rumore simile a quello prodotto dalla lacerazione di un tessuto e una nube di lezzo putrescente m’investì con violenza inaspettata colpendomi allo stomaco.  
 
Stavo sognando; anzi, mi trovavo in preda ad un incubo.  
Un incubo feroce. L’isola, il lago, l’oste erano spariti. Il sudore e quel tanfo stomachevole stavano avendo la peggio sui miei sensi, anche se percepivo, distintamente, il silenzio della camera, il sudore oleoso della fronte e il letto scomodo, freddo e traboccante sudore.La lampada si spense e rimasi immobile nell’oscurità più impenetrabile, aspettando di udire un qualsiasi movimento, uno spostamento, un sussurro. Osservando con occhi febbricitanti, intuii che al bordo del letto c’era qualcosa bassa, fredda e nera. Una cassapanca? Una bara?  
La febbre non mi concedeva tregua.Naturalmente non udii nulla. C’era solo il silenzio. Il silenzio e quella presenza, quella bara. 
Con dita tremanti riuscii a riaccendere la lampada, poi la sollevai e scrutai con circospezione la stanza. Sì, c’era una bara collocata ai piedi del mio letto ed era aperta. Con grande sforzo vinsi il mio stato di debolezza e mi avvicinai per osservarne l’interno. Ero sudato, ansimante e stanco.  Il cadavere mezzo mummificato di una donna stava disteso là dentro, velato di un lacero sudario ammuffito. Due cose mi colpirono immediatamente: Una maschera di metallo copriva il volto di quel corpo scheletrico, contorto e rinsecchito. Tentai di schiarirmi la mente. La stanza, adesso, era invasa da vapori pestilenziali che gravavano nell’aria e che sapevano di lenta putrefazione. Mi sentivo vagamente stordito, incapace di seguire con i miei pensieri un percorso logico. Lo stato febbrile non mi permetteva altro. Un ‘idea, comunque, prese a farsi strada. Dovevo togliere quella maschera. Dovevo verificare quali fossero le condizioni del volto e se possibile fotografarlo. Un rapido esame rivelò che la maschera era stata sigillata, ma ormai quel metallo avrebbe ceduto facilmente. Forzai la serratura con un coltello e in pochi minuti il meccanismo interno, che teneva bloccato tutto, si disintegrò in uno sbuffo di polvere e ruggine. Sollevare la maschera, però, non fu altrettanto semplice. Il coltello scivolò di lato nel tentativo di fare leva, provocandomi un taglio profondo sul dito. Quell’incidente però fu provvidenziale perché, involontariamente venne rimossa la striscia metallica che ancora impediva il sollevamento della maschera. Rimasi come di ghiaccio quando scoprii la serie di enormi chiodi all’interno della maschera stessa. Quei chiodi dovevano aver perforato il volto e il cranio della donna!  
Rabbrividii d’orrore al pensiero … 
 
Sotto la maschera non vi era altro che un teschio. In quel momento, però, mi resi conto che un sottile rivolo del mio sangue era scivolato lungo la superficie della maschera finendo per gocciolare entro le orbite cieche del cranio.  
Ecco che, all’improvviso, viscidi brandelli di carne cominciarono a materializzarsi sopra quelle ossa rinsecchite. Incredulo e terrorizzato indietreggiai barcollando, incapace di accettare quello a cui stavo assistendo.  
Quella carne innaturale prese a strisciare sopra il teschio, rendendo più saldo il suo legame col tronco e ben presto tendini, cartilagine, muscoli e pelle, giunsero a ricostituire il volto di una donna, un tempo probabilmente molto bella ma ora guastata dai profondi chiodi. Due scorpioni neri fuggirono attraverso le orbite prima che due lucidi bulbi oculari, dalle pupille azzurrissime, si materializzassero otturandone le cavità e regalandomi uno sguardo, a un tempo, terribile e ammaliante.
 
 
                                                           
 
Poi, quell’orrore, parlò. 
In principio ebbi soltanto l’impressione di udire echeggiare la voce di una donna, anche se le labbra di quel cadavere restavano serrate; entro pochi secondi quella vaga sensazione si tramutò in una serie di pulsazioni all’interno del cervello e percepii, con chiarezza, la voce scandire queste parole: ”Vieni, baciami, raggiungerai l’immortale beatitudine. Diverremo un essere solo. Morirai, ma la tua morte ci unirà per sempre!”. 
Sto sognando, pensai e presto mi sveglierò. 
Intanto le labbra della donna si avvicinavano alle mie e sollevandosi un po’, misero in luce due candidi e affilati incisivi. Li fissai estasiato. 
No, non sta accadendo realmente. La mia vista, le percezioni sono falsate. Devo svegliarmi, svegliarmi, svegliarmi … Non riuscii a sottrarmi a quell’imperioso richiamo e iniziai a muovermi, come un automa, verso la donna distesa nella bara. Avrei voluto urlare, spaccare quella testa orrenda con una pietra, fuggire, morire, qualsiasi cosa pur di non sentire premere, contro la mia bocca, quelle labbra morte; comunque non potei lottare in alcun modo, neppure quando le sue braccia scarne si sollevarono dal sarcofago, mi afferrarono e mi costrinsero ad un fetido abbraccio. 
 
Ed ecco le labbra della donna pressarsi contro le mie. 
In fondo non è così male. E’ piacevole, quasi come se fosse un bacio vero, pensai.La mia bocca fu invasa da un sapore salmastro e ferroso. Era sangue! Stava sgorgando dalle mie labbra, colando lungo le carni macere di quel cadavere. Stava bevendo il mio sangue! Quei denti mi avevano lacerato le labbra, frugando dolorosamente per suggerne la linfa scarlatta. Percepii un suono, simile a quello di una bestia che lappa per dissetarsi. Provai inutilmente a divincolarmi con un ultimo immane sforzo di volontà: L’abbraccio fu inesorabile. Quella scena incredibile e spaventosa sembrò protrarsi per ore. Di quando in quando la donna scostava il capo, interrompendo per alcuni istanti il suo osceno pasto e ogni volta il suo aspetto sembrava  modificato. Il pallore del viso prese a sfumare in un’ombra rosata, riducendo il contrasto con la lucida macchia rossa attorno alla bocca. Venature sanguigne presero a tingerle le guance. 
 
E’ il mio sangue, pensai, e sta scorrendo nelle sue vene! 
Ogni volta che quella creatura si fermava, potevo percepirne la forza, mentre gli occhi luminosi, splendidi e bramosi emanavano una luce sempre più intensa ad ogni sorso caldo del mio sangue. 
Durante quell’interminabile supplizio la sua voce vibrò, ancora una volta, nella mia mente: “Ora siamo una persona sola e mi seguirai, per amore, ovunque ti condurrò, fosse anche alla tomba. Allora e soltanto allora avrà inizio la tua vera vita, al di là della morte … e oltre!”. 
La mia vita stava scorrendo come un romanzo; un romanzo senza inizio, ma con una fine ben precisa. In fondo era bello vivere un romanzo misterioso tutto per me. 
 
Quando fu aperta la porta di quella stanza una lama infuocata di luce investì i miei occhi socchiusi e acquosi. Il caldo, sudore e stanchezza mi sconvolsero con tutta la loro forza. Sentivo ancora il sapore salmastro fra le labbra mentre, lentamente, l’immagine di quella donna sfumava nei ricordi di un incubo. Quasi in dormiveglia ascoltai i passi che si avvicinavano al letto. Vidi  Ninni, ritto sul tappetino scendiletto, la figura come contratta, gli occhi stravolti e fissi sul mio corpo disarticolato e immobile tra le coperte in disordine, quasi fossi un manichino di cera. 
Era in compagnia di una donna dall’aria vagamente familiare e poggiando la sua fresca mano sulla mia fronte, sussurrò: “Cristo, povero Milord! Nel pomeriggio, quando l’avevo visitato era, sì incredibilmente emaciato, macilento, ma in poche ore è diventato addirittura irriconoscibile. Una specie di scheletro ricoperto da una sottile pellicola di pergamena”. La mano destra, che pendeva stanca dal bordo del letto, sembra quasi trasparente. “Ne ho visti di malati indugiare sulla soglia dell’aldilà, ma mai prima d’ora, mi era capitato di vedere un corpo tanto distrutto che riuscisse a trattenere, contro qualsiasi ordine naturale, un barlume di vita”. 
 
Ero vivo e seppur vacillante come la fiamma di una candela giunta al lumicino, il polso reggeva ancora.  
 
L’alba grigia era penetrata nella stanza prima che azzardassi, sia pure per un istante, l’articolazione di una qualsiasi parola. Ero intontito di stanchezza e i miei nervi avevano perso ogni facoltà di reazione, quasi fossero diventati pezzetti di elastico vecchio e logoro. Avevo la sensazione che se qualcuno avesse sparato un colpo di pistola vicino al mio orecchio o che tutti i mostri dell’universo fossero entrati nella stanza, non avrei nemmeno sussultato.  
Nella camera regnava il silenzio assoluto.  
Ninni, seduto su una poltrona, non aveva proferito parola. La donna, invece, era in piedi davanti alla finestra, dando le spalle alla stanza e fissava il cielo plumbeo che andava a poco a poco schiarendosi. Era immersa in lontani pensieri, lo percepivo. Alla fine si voltò a capo chino, mostrando il suo volto velato.
 
“Avevo ragione io, Lord Ninni”, mormorò con calma. “Tutto questo”, indicandomi sul letto, “è spiacevole e tanto triste; non vi nascondo di temere che …”. 
 
“No, Perla, non avete più nulla da temere adesso. Non più”.  
 
Ninni si alzò e scrutandomi il volto aggiunse: “Era necessario, mia Signora. L’anima di Lord Ninni, in questo mondo, vi ha permesso di tornare nel Mondo Accanto, per rivivere, per ascoltare le correnti del tempo e forse tornare a sognare …”. 
“Si, Milord, ma a che prezzo”, rispose con un filo di voce. 
 
“Non temete mia Signora, non soffrirà; almeno non più grandemente di quanto non abbia sofferto durante la sua inutile vita. Quando verrà il momento, quello che entrambi attendiamo, noi e la sua anima ci ricongiungeremo, finalmente, in un unico corpo qui, nel Mondo Accanto.  
 
Mentre Voi, mia Signora, grazie al suo dono, avrete riacquistato quella vita che egli vi concede … per amore!”..Lentamente, Perla Von Mahuren, sollevò il velo che le proteggeva il volto e chinandosi sulla fronte, ormai fredda, depositò un bacio leggero come i suoi occhi azzurri. 
Poi fu il buio.  
 
Oggi, a distanza di tanto tempo e racchiuso in questa fotografia, che mi tiene prigioniero, ricordo, con affetto, quel lungo e doloroso passaggio rappresentato dall’effimera vita di ogni essere umano.
   
 
 
 
     
 
        
 
Qui, nel Mondo Accanto, la tristezza, la disperazione e la marcescenza non regnano. Qui la verità vive. Qui tutto ha forma e scopo.  
 
Qui pace.  
Qui serenità.  
Qui amore.
 
 
 
 
 
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