L 'Antica Dama: " Il ritorno" 
 
 
Anno Domini 1881 
Quella sera non mi andava di cenare. Nel pomeriggio mi ero recato dall'antiquario e gli avevo chiesto di prestarmi il sèguito, ovvero, il secondo volume di quello strano libro che in precedenza sembrava avermi rapito facendomi perdere l'intelletto. Quando lui rifiutò, obiettando che non gli avevo restituito il primo, ebbi  i nervi a fior di pelle. Mi sentivo come un uomo schiavo di erbe stupefacenti di fronte alla triste consapevolezza nel non potersi procurare l'agognata mistura. In preda alla disperazione, dunque, pur intuendone a malapena il motivo, offrii all'uomo dell'altro denaro finché non ne ebbi ragione grazie ai miei poteri di persuasione e grazie, anche, alla capacità del mio portafoglio. 
Eccolo finalmente fra le mani.  
Il secondo volume era identico al primo nell'aspetto esterno, mancante, però, del titolo sul frontespizio. Vago come lo era stato quello del "cane e della perla", il testo del sèguito, era ancor più delirante ed era, evidentemente, costituito soltanto dalle farneticazioni di un cervello sconvolto dall’abisso della pazzia. Studiandone, attentamente, le frasi riuscii a evincerne che lo strano scrittore aveva compiuto una seconda visita in quel giardino e lì aveva incontrato, di nuovo, la "sua" perla. 
L'ultimo paragrafo mi colpì.  
Diceva: 
"Può davvero essere così? Prego Iddio che ciò non sia vero anche se ho udito, distintamente, il ringhio di quella ripugnante creatura … ". 
Chiusi il libro e cercai di deviare altrove l’attenzione pulendo, accuratamente, gli obiettivi del mio nuovissimo apparecchio fotografico portatile ma, ancora una volta come la notte precedente, s’insinuò la stessa smania, lo stesso desiderio di visitare il giardino. Confesso di aver contato le ore nell’attesa di poter rivedere la signora in nero. Per strano che possa sembrare, nonostante la sua fuga improvvisa la notte prima, non dubitavo minimamente che fosse stata lì ad aspettarmi. Volevo che sollevasse il suo velo; volevo parlare con lei; volevo precipitarmi, ancora una volta, nelle strane trame di quell’oscuro libro che ripercorreva, quasi profeticamente, i momenti da me vissuti in quelle ore. Tutto sembrava così assurdo e combattevo quella sensazione con ogni slancio di volontà di cui la mia mente era capace. Poi mi resi conto di come sarebbe stata bella la sua immagine seduta sul sedile di pietra, con quell’ abito nero e lo sfondo classico dell'antico giardino. Se solo avessi potuto fermare la scena sulla pellicola. 
Smisi di strofinare l'obiettivo e riflettei un momento. Con una macchina flash a batterie di nuovo tipo, quella maneggevole invenzione che ha soppiantato il vecchio e rudimentale lampo di magnesio, avrei potuto facilmente illuminare il giardino, scattare la fotografia e se il risultato fosse stato soddisfacente, avrei potuto realizzare un degno contributo al Concorso Internazionale di Ginevra per il mese successivo. L'idea mi convinse e dopo aver messo insieme l'attrezzatura necessaria, indossai un pesante mantello (quella notte era fredda e umida) e sgusciai fuori dalla mia casa.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
Pazzo, folle e sciagurato! 
 
Se solo avessi potuto interrompere quell’infelice avventura, riportando i libri all'antiquario, forse oggi non sarei rinchiuso qui tra queste lucide pareti di delirante follia! Quella strana ed irrefrenabile attrazione, aveva rapito i miei sentimenti, facendomi precipitare nelle orride profondità dell’abisso. 
 
La pioggia battente tamburellava sul selciato delle strade deserte.  
Una pesante coltre di nuvole ardeva di un delicato splendore là dove la luna tentava di farsi largo, mentre un forte vento prometteva di ripulire il cielo in breve tempo. Con i lembi del mantello ben sollevati intorno alla gola, passai di nuovo dalla parte vecchia della città, lungo quel viale solitario e desolato della sera prima. Trovai il cancello aperto come la prima volta e il giardino rorido e immerso nell’oscurità. La donna non era là, ma era ancora presto e non dubitai, nemmeno per un istante, che sarebbe apparsa più tardi. In preda all’entusiasmo per il mio piano, sistemai con cura l’apparecchiatura sulla fontana di pietra e puntai, con tutta la precisione possibile, l’obiettivo verso il sedile su cui c’eravamo seduti la sera precedente. 
Tenni la macchina flash a portata di mano. 
 
Avevo appena terminato i miei preparativi quando uno scalpiccio sulla ghiaia del viale mi fece voltare. Lei, a capo chino, camminava lentamente verso il sedile di pietra, velata come l’altra volta e con indosso lo stesso solenne abito di pizzo nero.
 
Siete tornato”, disse mentre mi sedevo accanto a lei. 
“Si”, risposi. “Non riuscivo a starvi lontano”. 
 
Quella notte la nostra conversazione finì, a poco a poco, per avere come soggetto il fratello morto, anche se varie volte ebbi l’impressione che la donna tentasse di evitare l’argomento.  
Questi era stato, a quanto sembrava, la pecora nera della famiglia. Aveva condotto una vita più o meno dissoluta ed era stato espulso dall’Università di Vienna, non solo per la sua mancanza di riguardo nei confronti degli insegnanti delle varie discipline, ma anche a causa di alcune sue bizzarre e poco ortodosse tesi filosofiche. Le sue sofferenze in quel campo di prigionia, durante la guerra, dovevano essere state veramente molto intense e fu con una specie di perverso piacere che la donna si dilungò sulle orribili esperienze vissute dal fratello presso il plotone addetto ai servizi mortuari e che le erano state riferite, in un secondo tempo, da un commilitone. Ma di come egli ne avesse trovato la morte non volle dirne, assolutamente, nulla. 
L’odore dolciastro di eliotropio era ancora più forte della notte precedente e di nuovo, quando i suoi fumi s’insinuarono disgustosamente nei polmoni, sopraggiunse quello stesso stato di nervosismo, quella medesima sensazione che quel profumo così penetrante nascondesse qualcosa. Il desiderio di vedere il suo volto nascosto dal fitto velo era diventato, a quel punto, esasperante, ma mi mancò il coraggio di chiederle di sollevarlo.  
Verso mezzanotte il cielo si rischiarò grazie alla luna che, brillando, emetteva uno splendido contrasto fra le nuvole: Ecco, era giunto il momento per la mia fotografia. 
“Restate seduta dove siete”, dissi, “sarò qui in un momento”. 
Mentre mi avvicinavo alla fontana, imbracciai la macchina flash, la alzai per un istante e posai il dito sulla leva dell’otturatore della camera.  
L’inquadratura era perfetta. 
Uno scatto e un lampo improvviso ed abbagliante avvolse tutto il giardino intorno. Per un breve istante, lei si stagliò in tutta la sua altera ed elegante figura sullo sfondo del vecchio muro. Poi tornò la luce azzurrina della luna e allora sorrisi soddisfatto. 
“Dovrebbe essere una bella fotografia”, dissi. 
Scattò in piedi. 
“Pazzo!”, gridò con voce roca, “cosa avete fatto?”. 
Anche se il velo le copriva ancora il viso, ebbi subito l’impressione che i suoi occhi mi fissassero carichi di odio. 
La guardai incuriosito mentre si ergeva con il busto eretto, la testa rovesciata all’indietro e il corpo apparentemente rigido come una sbarra; un lento brivido mi pervase la schiena. Poi, senza aggiungere null’altro, la donna sollevò l’orlo del vestito e corse lungo il viale del giardino abbandonato. Un attimo dopo era svanita, come per incanto, nel folto dei cespugli giganteschi.  
Lontano, un sordo lamento, quasi il rantolo di un moribondo, percorse tutti i viali in penombra del giardino, mentre un vento gelido e orribilmente maleodorante mi avvolse.
Impaurito e tremante, radunai tutte le forze e raccogliendo il cavalletto e la camera fotografica varcai il cancello correndo verso casa. 
Passai tre giorni, prigioniero di quelle  ore senza fine, in camera da letto, soffrendo incubi e inquietudine indicibili. Il giorno successivo alla mia terribile esperienza notturna, mi resi conto del turbamento e della mia profonda debolezza fisica. Bevvi due tazze di forte caffè nero e mi costrinsi a restare tranquillo in poltrona con la speranza che il mio nervosismo si placasse. La vista della macchina fotografica sul tavolo mi incitò all’azione. Cinque minuti dopo ero già nel mio studio adattato a camera oscura, intento a sviluppare la lastra che avevo impressionato quella notte.  
Lavoravo febbrilmente spinto da una forza oscura e terribile. 
 
Circa un’ ora dopo mi sfuggì  un’esclamazione di meraviglia: la stampa fotografica, ancora umida, non mostrava alcun soggetto.  
Si vedeva il vecchio giardino in modo chiaro, nitido e con i suoi cespugli; la statua del bimbo, la fontana e il muro sul fondo, ma il sedile in pietra era vuoto. Non c’era traccia alcuna della signora in nero, di quell’antica dama che mi aveva rapito l’anima, il cervello e forse il cuore. 
Agitai il negativo in una soluzione satura di cloruro di mercurio in acqua, poi lo trattai con ossalato di ferro. Anche dopo questo processo intensificante la seconda stampa risultò come la prima: A fuoco ogni dettaglio e con il sedile che si proiettava in primo piano e in netto rilievo, ma senza alcun segno della donna. 
 
Nessuna spiegazione si offriva alla mia povera mente febbricitante. Nessuna. 
Ero impaurito, stupefatto e alla fine, profondamente confuso, tornai a letto piombando in un sonno profondo.  
Dormii per tutto il giorno.
 
 
 
       
 
 
 
 
 
Quando riaprii gli occhi, mi sembrò di essermi risvegliato da un incubo nebuloso, triste; ero sudato, privo di forze. Una grande debolezza, mi aveva sopraffatto. Le gambe e le braccia giacevano come oggetti inanimati; anche il cuore pulsava debolmente.  
Tutto era così quieto, silenzioso, che potevo sentire l’orologio sul comodino marcare distintamente ogni secondo mentre la tenda, quel grande tendaggio vicino la finestra, si gonfiava nella brezza notturna, sebbene fossi certo di aver chiuso i battenti quando ero entrato nella stanza il giorno prima. Poi, all’improvviso, rovesciai indietro la testa e gridai. Lentamente ed inesorabilmente si stava insinuando nei polmoni quel terribile profumo di eliotropio!
 
 
 
Venne il mattino e mi accorsi che non si era trattato di un sogno. La testa ronzava, le mani tremavano ed ero così debole che a malapena potevo reggermi in piedi. Il medico, da me chiamato, assunse un’espressione grave mentre mi auscultava. 
“Siete sull’orlo di un collasso totale, Milord”, disse, “se non vi concedete un po’ di riposo, potreste avere delle conseguenze permanenti sul vostro sistema nervoso. Prendete le cose con più calma per un po’.”. Poi, chinandosi sul volto, aggiunse: “E adesso, se non vi dispiace, cauterizzerò queste due piccole ferite che avete sul collo. Sono tagli profondi. Cosa ve li ha prodotti?”. 
Mi portai le dita alla gola e le ritirai macchiate di sangue. 
“Non so, non saprei”, balbettai. 
 
Si diede da fare con le sue medicine e pochi minuti dopo aveva già indossato il mantello e il cilindro. 
 
“Vi consiglio di non muovervi per una settimana almeno”, disse. 
“Prossimamente vi farò una visita minuziosa per vedere se esistono delle manifestazioni di anemia”. 
Quando se ne andò intuii una espressione di preoccupata perplessità. 
Giurai a me stesso che avrei dimenticato tutto, che sarei tornato al mio lavoro e non avrei mai più guardato quei libri. Sapevo, però, che non ci sarei mai riuscito. L'immagine, il ricordo e il pensiero della signora in nero, mi invasava la mente e ogni minuto trascorso lontano da lei diveniva una tortura. 
Ancor di più: Ella era diventata un’ossessione, un’irraggiungibile figura che desideravo amare e dalla quale esserne corrisposto con slancio e trasporto.
Come in preda ad una strana estasi, riaprii quel libro e scoprii un piccolo taglio nella parte interna della copertina.  
Dentro era celato un foglio ingiallito dal tempo.  
Lo estrassi delicatamente e con inchiostro rosso sangue vi era scritto: 
 
Cosa potrò fare d’altro? Lei ha prosciugato il mio sangue e corrotto la mia anima. La mia perla è nera come il Male stesso. Che sia maledetto suo fratello, perché fu lui a renderla così. Prego, inginocchiato sulla nuda terra, affinché un giorno la verità di queste pagine possa distruggerli per l’eternità. Che il cielo mi assista e abbia pietà della mia povera e perduta anima: Perla Von Maurhen e suo fratello Johann, …. sono vampiri!”. 
 
Vampiri! 
Mi aggrappai al bordo del tavolo e rimasi barcollante.  
 
Vampiri!  
Orribili creature avide di sangue umano e capaci di assumere sembianze di esseri umani, pipistrelli o cani. Gli avvenimenti dei giorni precedenti mi apparvero, allora, in tutto il loro orrore e riuscii a scorgere il sinistro particolare di ogni significato. Amando quella donna, quasi venerandola, mi ero condannato a quella nefanda esistenza e adesso, consapevole di questa orribile verità, mi ritrovai nel delirio e in preda alla follia. Folle sì, ma non tanto da non poter descrivere questi fatti accaduti.
 
 
 
 
 
 
   
       
"Rivelazioni intese a nuocerci, servono soltanto a creare invisibili legami. Leggi, o folle, ed entra nel mio giardino, ché a cotàl luogo siamo incatenati. Sia su di te la mia maledizione”. 
 
Tale il contenuto della scritta, semi cancellata, sul sedile di pietra. Tale era il monito per tutti gli esseri a venire. 
L’amore per quella donna aveva confinato la mia vita entro il cancello di quel giardino. 
E oggi sono qui davanti a te Ninni, amico mio, prigioniero di tali spire in attesa di una liberazione che mai arriverà.
 
 
 
 
 
La fine. 
 
 
Anno Domini 2008 
Ninni iniziò a piangere, mentre Lord Ninni, accomodato su un’ampia poltrona e stringendo un grosso libro, osservava con aria distratta l’enorme specchio di fronte. Le ombre lunghe della sera avevano invaso lo studio e gli ultimi raggi del sole abbandonavano, così, il giorno per far posto a una notte gonfia di pioggia. Lord Ninni si alzò e deponendo con cura il libro sull’antica scrivania, lentamente si avvicinò allo specchio. 
Nervosismo e inquietudine lo stavano soffocando da giorni. 
Osservò il proprio sguardo e per un attimo percepì una luce gelida e fredda.  
Proprio quegli occhi che, oltre la lucida superficie, lo osservavano come se gli volessero narrare qualcosa di incomprensibile e di tanto lontano.
 
 
         
 
Lo squillo, improvviso, dell’interfono lo distolse. 
 
“Si?”. 
“Perdonate Milord, ma una signora chiede di essere ricevuta da voi. Ha detto di chiamarsi Maurhen, Perla Von Maurhen”. 
“Grazie. Fate accomodare la nobildonna nel salottino verde e servite il Tè. Sarò da lei tra un attimo”, rispose quasi sussurrando. 
In quel momento, un lontano pianto di dolore tra le spire di quella casa, si spense insieme alle luci dello specchio rimasto ormai senza alcun riflesso. 
Il Mondo Accanto aveva, ancora una volta, chiuso le sue antiche porte. 
 
Dopo, nulla fu più come prima.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Encyclopaedia Britannica Inc., Edinburgh, 1889 Edition by Society of Gentlemen of Scotland, Vol. XIV, pag.52: 
 
Vampiro: 
Termine di sicura origine serba. Originariamente riferito, nell’Europa orientale, ai fantasmi succhiatori di sangue, ma nell’uso moderno trasferito a una o più specie di pipistrelli sanguisughe diffusi nel Sudamerica. Nella prima accezione, si suppone di solito che un Vampiro sia l’anima, priva di ogni salvifica luce, di un uomo morto che, di notte, lascia il cadavere e materializzandosi succhia il sangue di esseri viventi. Di conseguenza, se si apre la tomba del vampiro, il suo corpo viene trovato fresco e roseo per il sangue in tal modo assorbito. Si ritiene che i Vampiri abbiano il potere di assumere qualsivoglia forma e che spesso volino sotto specie di polvere, pagliuzze o lanugine, ecc. per mettere fine alle sue distruzioni, lo si trapassa con un palo, oppure gli si taglia la testa, o gli si strappa il cuore, o si versano acqua bollente e aceto sulla tomba. Le persone che diventano Vampiri sono maghi, streghe, suicidi e coloro che sono morti di morte violenta. Inoltre, chiunque incontri la morte a causa di questi Vampiri, è condannato a unirsi alla loro schiera infernale. 
 
Cfr.: Dissertazione sui Vampiri d’Ungheria, di Calumet.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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