Un altro giorno 
17 Agosto 2008 
 
 
 
 
 
Un altro giorno di silenzi e di ricordi.  
Quest'aria, proprio, non la sopporto più. Ha il senso del peso, della macerazione e dell’oblio. Le giornate trascorrono, lentamente, alla ricerca del nuovo o almeno di quello che mi piacerebbe possa essere nuovo. I rumori, attutiti da tutti questi libri che mi circondano, arrivano come bisbigli lontani.  
Rifletto. 
 
Tutto passa oppure tutto torna.  
E se torna, da dove torna per dio? 
 
Ricordo le strade che percorrevo da ragazzo. Umide e gonfie di profumi dei mercatini rionali. Il freddo pungente mi faceva compagnia mentre in solitudine cercavo qualcosa che mi potesse far sorridere o almeno dimenticare il silenzio. Avevo dodici anni e il mondo era composto da quelli che parlavano e quelli che osservavano.  
Io preferivo osservare. 
Stai zitto, mi ripeteva spesso la mamma. Non sbaglierai mai. Mentre con questo peso dentro continuavo a crescere scrutando il viso e le parole altrui. 
E intanto mi innalzavo e diventavo un angelo, oppure dio in persona. Mi attiravano le nuvole. Quelle nuvole bianche grigiastre che, come batuffoli di cotone pesante dal profumo di muffa, camminavano sulla mia testa in silenzio.  
 
Erano bellissime e rimanevo ore e ore ad osservarle mentre il freddo pungente mi rendeva quasi violaceo. Rimanevo rincantucciato in quel terrazzo, bagnato dalla pioggia, per interi pomeriggi e adesso, ripensando a quei momenti, non ho mai vissuto così intensamente la mia vita. I profumi e gli odori che accompagnavano quelle ore erano caratteristici e confortanti. Odore di bucato misto al sapone molle; le donne che lavavano e parlavano fra loro, entro quel cortile colmo di piante sui davanzali e tapparelle chiuse. Tra tutte quelle voci mi giungeva, ogni tanto, quella di alcuni ragazzi che, giocando a palla, riempivano l’aria di tonfi più o meno forti, tali da impaurire le nuvole al loro passaggio. E osservavo, osservavo, quasi passivamente, quei ragazzi che erano liberi di giocare e di parlare; di vivere quei momenti e quei pomeriggi. 
 
Nascosto tra due vasi di terracotta, osservavo tutto questo, mentre gli ultimi tuoni spegnevano un pomeriggio umido. Freddo, freddo; ecco quello che sentivo. 
 
Poi, all’improvviso, tutto terminava. Finiva. 
Semplicemente smetteva di esistere e mi risvegliavo, come da un lungo sonno, dentro una casa troppo buia e troppo silenziosa. Una casa piena dei fantasmi e delle mie paure della notte prima; dei miei sogni che ancora stavo vivendo in un pomeriggio di quasi pioggia. 
 
Rientravo, è proprio il caso di dirlo, dal mio rifugio esterno verso la cucina, strisciando come un gatto facendo attenzione a non fare rumore. 
Mia madre, dietro i vetri, in una stanza troppo buia, la stanza da pranzo, continuava a sferruzzare. 
Non si era accorta della mia assenza. Tutte quelle ombre che la circondavano facevano a nascondino con il mio viso. Oggi direi “un quadro a tinte fosche” ma, allora, avevo paura. Raggiunti i suoi piedi, quelli di mia madre per intenderci, gattonando, mi appoggiavo all’angolo tra la macchina da cucire e il balcone.  Proprio all’angolo della stanza, quasi coperta dalle tende color bianco sporco che ornavano quel bel quadretto. Volevo fare qualcosa, mi sarebbe piaciuto parlare senza essere rimproverato ma, quegli occhi vispi, lucidi e veloci di mia madre erano lontani mille chilometri da me. 
 
Silenzio e silenzio.  
 
Forse giocare con un'automobilina? 
No, sarei stato rimproverato perché troppo stupido. 
 
Il medico si alzò dal tavolo e disse: 
“Per oggi basta così. Abbiamo terminato”. Poi, avvicinandosi, pose una mano sulla mia spalla rassicurandomi:  
“Grazie, puoi andare. Sei stato bravissimo e onesto quanto basta.”. 
Prima di uscire si girò quasi su se stesso e aggiunse: “Come ti senti?”. 
“Bene” risposi riconoscente verso quel dottore che, anche se un dottore, mi aveva reso importante. 
Lui mi ascoltava e soprattutto non mi derideva sfottendo ogni mia parola. 
 
Ricordo che terminai quella prima seduta contento e speranzoso di averne delle altre così. 
Cinquemani entrò nella stanza e annuendo verso il dottore che usciva, mi venne incontro con un gran sorriso. 
“Adesso andiamo”, disse, “ sarai stanco”.  
“Si” risposi, “ma non sono, però, così stanco”. Non credo ascoltasse quest'ultima frase, mentre mi faceva indossare (senza farmi del male, questa volta) il camice delle passeggiate, quello lungo che ti ferma le braccia.  
 
Poi mi fece salire, in piedi, sulla slitta (io l’ho sempre chiamata così) e mi spinse verso la stanza dove dormivo. 
Il profumo di minestra alle verdure mi riempì gli occhi. Non ricordo, però, quando la mangiai. 
Anzi, non ricordo di essere entrato mai in quella stanza. 
 
E’ tutto così confuso. 
Adesso è notte e oltre il bisogno di pisciare non ho altri pensieri. 
Fuori, dal corridoio, un ticchettio insistente mi martella il cervello.  
Le voci, ora, si fanno più lontane, ancora di più, fin quando come sempre non mi addormenterò nuovamente. 
 
Cristo, un’altra notte!