di Ninni Raimondi 
7 Settembre 2013
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Si avvicinava lentamente, scendeva quasi barcollando cercando con gli occhi tra quell'oscurità un appoggio per i suoi occhi chiari. Era spaventata, come se fosse stata dentro un sogno che bagna il cuscino e fa tremare il cuore. Era bella, la vedevo da quaggiù, aveva ancora la corona di fiori tra i capelli, sciolti e scomposti. Si fermava e poi riprendeva guardando sempre indietro come potesse vedere il punto da cui era entrata, come se potesse vedere quel punto di luce che aveva abbandonato. 
 
Ma era impossibile scorgerlo. 
 
Tutti si scostavano per lasciarla passare e la guardavano senza parlare perché non si confondesse, perché non provasse più emozioni di quelle che stava sentendo. La malinconia nei suoi occhi me la rese subito preziosa. La presi per mano e la accompagnai davanti ad un rivolo, dove istintivamente si specchiò e i suoi occhi la videro bella più di come ricordavano nella luce. Aveva il sorriso spento ma gli occhi ancora accesi e sfiorò l'acqua ma non sentì altro che vento fresco. I mille cerchi, che quando era lassù ripetevano all'infinito la sua immagine, non trovò qui, perché solo fumo era il freddo delle sue mani al contatto con quel fiume. Ma non tremarono i suoi occhi quando incntrarono i miei. E si rasserenò. Mi parlò dei profumi che aveva lasciato lassù, di un amore caldo e dolce, del canto e dei suoni che la svegliavano quando l'alba tornava a destarsi. 
 
E dai suoi racconti compresi perché lì ancora stavano versando lacrime di dolore al cospetto di quel corpo senza occhi accesi e perché i fiori avevano smesso di ondeggiare e se ne stavano fermi a fissare quel viso senza più dolcezza. E capii perché lassù il vento, che qui non ha voce, piangeva tra le foglie, nascosto, perché le mani che stringevano quel corpo vuoto non fossero urtate da fremiti. Forse aveva già compreso dove era stata condotta, perché il respiro non le gonfiava i polmoni e non avvertiva la stanchezza ai piedi. Le sue mani non avevano pieghe e i suoi capelli restavano sospesi mentre pensava. Pensava… Ma non le scorrevano giù per le guance che gocce di acqua di roccia. E suoi occhi cominciarono ad abituarsi al buio che l'avrebbe circondata e non c'era niente che le abbagliasse la vista delicata, niente che le pungesse il cuore quando ricordava. Riusciva ancora a sentire fremere il ricordo. 
 
E non c'era il tempo che sciupava la memoria e che rattoppava a stento le ferite.  
 
Non c'era la voce acuta di un dolore che non si placa; non si nascondeva la luna per fare posto a quello specchio di luce. E il suo sonno era custodito da mille anime vaganti e dalla mia veglia eterna .Ma sapevo che si sarebbe persa perché lui sarebbe giunto fin qui a turbare un sonno placido ed eterno; lui altero e fermo, forte della sua voce alta, fiero di essere un eroe che non ha mai combattuto, ma che ora avrebbe sfidato le ombre. Lo vedevo agitarsi, di notte, quando le nubi coprivano la luna, perché sapeva che era la luce che lo faceva forte e non c'era luce qui!  Temeva di inciampare e non fare più ritorno ai suoi campi dorati. 
 
Ma lo supplicarono le acque e il vento, le viole e i passeri, così una mattina di sole, quando tutti potevano avvicinarsi per vederlo, imbracciò la sua forza e venne a riprendere la sua sposa. La sua sposa che adesso sentiva con chiarezza la dolcezza della morte e aveva dimenticato che la voce che la teneva in vita, quel sospiro del vento tra le labbra del suo amante era scomparsa, ma nessuna nostalgia era rimasta dentro la sua anima, adesso, solo adesso così libera e leggera. Adesso era cosciente di sé e restava immobile a contemplare un sorriso per caso apparso sulle labbra; adesso era qui e aveva dimenticato ogni cosa. Lui iniziò a suonare e le anime che veleggiavano si fermarono per ascoltare le note di pianto che aveva intonato per intenerire Colui che non aveva mai fatto un passo indietro! 
 
Il buio diventò impalpabile e lei udendo quel suono, ricordò ogni cosa. 
 
Ricordò l'ultimo bacio nella distesa del campo mentre già i suoi occhi impallidivano. Per un attimo volle andare a sfiorare quel corpo, ma la sua ombra la trattenne perché era troppo vivo per comprendere lei ora. Tutto era diventato suono e lui vinse la sfida, la sua partita: avrebbe potuto riportare a casa il trofeo della sua vittoria. Della sua bravura, della sua maestrìa. Era fiero e guardava dritto, negli occhi di fuoco, Colui che non ama essere fissato, quasi a mostrargli come una forza più grande della sua Lo aveva sconfitto.  
E tra le mani stringeva quella forza, ma non la sua sposa.  
Si guardava le mani e sorrideva. 
 
Ottenne quello che aveva chiesto: Lei sarebbe dovuta tornare con lui lassù, nel mondo che aveva dimenticato; nel mondo della vita e della morte; della felicità e del dolore; delle lacrime e del sorriso. Felice della vittoria non si voltò a guardarla, sicuro che anche lei fosse felice; che fosse ancora la sua sposa; che volesse tornare e si incamminò. Conosceva i patti,  li avrebbe rispettati. Agli ordini del Signore non si può disobbedire e lei mi guardò per l'ultima volta, supplichevole! 
 
Lessi tutta l'angoscia che le si era risvegliata; lessi nella sua mano tremante l'ultimo saluto, l'ultimo attimo di pace che stava andando via, man mano che si avvicinava alla soglia, dove l'attendeva il sole abbagliante che l'avrebbe accecata; dove l'aspettava il fragore che l'avrebbe resa sorda; dove il destino non aveva voluto che fosse e l'avrebbe torturata, ma che non me l'avrebbe riportata. Le avrebbe riservato una lenta e lunga vita accanto ad un uomo che si specchiava nelle sue mani mentre ondeggiavano sulle corde del suo strumento; accanto ad uomo che non avrebbe più rivisto la luce dentro i suoi occhi e l'avrebbe cercata altrove, in altri occhi, in altri sorrisi, in altri abbracci. 
Su quella soglia l' attendeva la vita, quella vita che qui era stata lesta a dimenticare e a non rimpiangere. E mentre le lacrime ritornavano sul suo volto avvicinandosi alla Luce, lo stupore iniziò a crescere: adesso ricordava, con tristezza,  il sapore acre dei rivoli sulle labbra. Lui si fermò per un attimo e tra le pareti di quella oscura caverna, un rumore cupo, cadenzato lo attrasse: erano le lacrime della sua sposa che disperata, si trascinava lungo le pareti.  
 
Si fermò.  
Non capiva; non voleva girarsi; non poteva credere che la sua musica avesse incantato tutti e non Lei. Non voleva girarsi: aveva giurato che l'avrebbe riportata indietro e doveva varcare la soglia con Lei, o sarebbe stato tutto vano. Quell' eco di pioggia lo assordava. Solo un desiderio: raggiungere al più presto l'uscita, ma con la certezza della sua vittoria. Chi avrebbe creduto che proprio Lei non voleva tornare più? Sua la colpa e l'incapacità nell' averla abbandonata lì. Nessuno avrebbe più ascoltato il Principe dell' Armonia; nessuno si sarebbe più soffermato ad osservarlo; nessuno più gli avrebbe tributato gli onori dovuti. Doveva dimostrare che niente era più forte della sua musica: La musica di Orfeo. 
 
E si voltò di scatto per afferrarla.  
Ma il pianto era cessato. 
Per sempre! 
 
Stretta nel buio dell'attesa,  
l'ultimo raggio  
del sole di maggio  
le si era spento negli occhi, 
insieme alla promessa dell'amato. 
 
Ma l'attesa era senza parole,  
per non oscurare  
con le sue preghiere senza poesia  
il canto di colui  
che l'avrebbe riportata  
dove aveva lasciato gli occhi  
pieni di luce. 
 
Restò muta e senza lacrime,  
al limitare del giorno,  
quando lui si voltò  
verso la vita.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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