di Ninni Raimondi 
1 Settembre 2024
15 La Strage di Schio
 
 
La Strage di Schio 
 
Un reparto di partigiani della brigata garibaldina, comandati da “Romero” e “Teppa” (pseudonimi), irruppe nella notte del 6 Luglo nel carcere mandamentale della città; non disponevano di elenchi di fascisti, quindi li cercarono, e, non avendoli trovati, le vittime furono scelte tra i 99 detenuti del carcere. 
 
Tra questi, solo 8 erano stati indicati al momento dell’arresto come detenuti comuni, mentre 91 erano stati incarcerati come “politici” di possibile parte fascista, sebbene non tutti fossero ugualmente compromessi con il fascismo e in molti casi forse fossero stati arrestati per errore. 
Erano in corso gli accertamenti delle posizioni individuali. Per alcuni era già stata accertata l’estraneità alle accuse ed era già stata decisa la scarcerazione, non avvenuta per lentezze burocratiche. 
 
Gli 8 detenuti comuni vennero subito esclusi dalla lista, insieme a 2 detenute politiche non riconosciute come tali. Al processo del 1952 si accertò che solo 27 su 91 avevano una connotazione fascista. 
Dopo una approssimativa cernita, che suscitò contrasti tra gli stessi fucilatori, alcuni proposero che fossero risparmiate almeno le donne, che in genere non erano state arrestate per responsabilità personale ma solo fermate per legami personali con fascisti o per indurle a testimoniare nell’inchiesta in corso. “Teppa” si oppose dicendo “Gli ordini sono ordini e vanno eseguiti“, non disse da chi provenivano gli ordini, e non fu mai accertato, nonostante un processo apposito nel 1956. 
Dopo un’ora di incertezza, mentre alcuni partigiani non convinti si allontanarono, vennero uccise a colpi di mitraglia 54 persone, tra cui 14 donne (la più giovane di 16 anni), e ne vennero ferite numerose altre. Alcuni, coperti dai corpi dei caduti, si salvarono indenni. I soccorritori quando giunsero trovarono il sangue che colava sulla scala, sul cortile e arrivava fino sulla strada. 
 
Dopo l’eccidio 
L’evento ebbe grande risonanza non solo nazionale, ma internazionale, tendendo a dimostrare il pericolo costituito dal persistere di formazioni nominalmente dipendenti dal C.L.N., ma di fatto dipendenti da altri poteri occulti. 
Su pressione della autorità di occupazione angloamericane venne aperta una inchiesta da cui risultò che, tra le persone colpite, 27 erano componenti del partito fascista, senza che fossero dimostrate prove di crimini, altri potevano forse essere correlati (mogli, fidanzate, conoscenti…) con fascisti che erano lì rinchiusi. 
 
Tra loro vi era anche chi non era mai stato fascista. Una donna era solo la padrona di casa di un partigiano moroso dell’affitto, che sollecitato a pagare l’affitto l’aveva fatta incarcerare. 
Tuttavia, l’azione degli ex-partigiani riscosse un certo sostegno nel paese in quanto molti temevano, dopo il discorso di Chambers, che senza l’esecuzione sommaria quelli tra loro che avessero avuto responsabilità fasciste avrebbero facilmente guadagnato l’impunità. 
 
«Si può dire che la causa antifascista era più giusta perché si opponeva a un regime fascista che si era affermato con la violenza, l’oppressione e la soppressione dei diritti dell’individuo […] Ma l’episodio di Schio è avvenuto al di fuori del periodo di guerra, quando uccidere era diventato inaccettabile. Questo era un atto fuori legge e fuori dalle regole, portato a termine dai partigiani in aperta sfida anche ai loro stessi superiori.» 
(Sarah Morgan Rappresaglie dopo la Resistenza, L’eccidio di Schio tra guerra civile e guerra fredda) 
 
Resta da notare, peraltro, che all’indomani dell’evento le organizzazioni partigiane, la Camera del Lavoro e il Partito Comunista Italiano, condannarono l’accaduto in quanto la guerra era già finita da nove settimane e si sarebbe dovuto attendere l’inchiesta sulle responsabilità individuali delle persone arrestate. 
 
I tre processi 
Il processo militare alleato 
Il governo militare alleato affidò le indagini agli investigatori John Valentino e Therton Snyder. In due mesi di indagini questi identificarono quindici dei presunti autori della strage, otto di questi ripararono in Jugoslavia prima dell’arresto, sette vennero arrestati. Il processo istituito dalle autorità militari alleate si svolse nell’autunno del 1945. La Corte militare alleata, presieduta dal colonnello americano Beherens, assolse due degli imputati presenti e condannò gli altri cinque, tre di essi furono condannati a morte, due furono condannati all’ergastolo, altri tre imputati furono condannati in contumacia a ventiquattro e a dodici anni di reclusione (le condanne a morte verranno commutate nel carcere a vita dal capo del governo militare alleato, il contrammiraglio Ellery Stone). 
 
Furono emesse queste condanne: 
Valentino Bortoloso, condannato a morte. 
Renzo Franceschini, condannato a morte. 
Antonio Fochesato, condannato a morte. 
Gaetano Canova, condannato all,’ergastolo. 
Aldo Santacaterina, condannato all’ergastolo. 
La pena effettivamente scontata dai cinque condannati presenti al processo fu tra i 10 e i 12 anni. 
 
Il processo penale italiano 
Altri autori dell’eccidio furono individuati successivamente e fu istruito un secondo processo, condotto da una corte italiana. Il secondo processo si tenne a Milano, la sentenza fu emessa dalla Corte d’Assise di Milano, il 13 novembre del 1952, con otto condanne all’ergastolo. 
Tuttavia uno solo sarà presente, gli altri sette erano fuggiti nei paesi dell’est dove trovarono protezione (come molti altri criminali autori di stragi): 
 
Ruggero Maltauro, restituito dalla Yugoslavia dopo la rottura con il Comintern, condannato all’ergastolo, ma non sconterà tutta la pena. 
 
Il terzo processo 
Nel 1956, undici anni dopo l’Eccidio, si tenne a Vicenza un terzo processo. Erano da accertare due fatti, le eventuali responabilità del ritardo a dare esecuzione all’ordine di scarcerazione di una parte dei detenuti, emesso a Vicenza e trasmesso per competenza a Schio, ma non eseguito, e l’individuazione della catena gerarchica da cui era partito l’ordine di eseguire la strage. 
Si trattava di individuare eventuali responsabilità nel ritardo dell’esecuzione dell’ordine di scarcerazione, ritard costato la vita a varie persone, e individuare i mandanti della strage, indicati dal Maltauro, alla corte d’Assise di Vicenza. 
Erano imputati Pietro Bolognesi, segretario comunale e Gastone Sterchele, ex vicecomandante della Martiri della Val Leogra. 
Sterchele fu assolto con formula piena, Bolognesi per insufficienza di prove; in appello fu anch’egli assolto per non aver commesso il fatto. 
L’identità dei mandanti della strage risulta tuttora ignota. L’eccidio di Schio rimane uno dei misteri d’Italia. 
 
L’atteggiamento del PCI 
L’Unità aveva definito i responsabili dell’eccidio “provocatori trotskisti“. 
In realtà i partigiani che avevano condotto l’Eccidio al carcere di Schio erano legati al Partito Comunista e alle ex-Brigate Garibaldi e alla organizzazione che dopo la fine della guerra succedette alle Brigate Garibaldi. 
 
Tre di loro, sfuggiti alle indagini, si recarono a Roma al Ministero di Grazia e Giustizia per conferire con Palmiro Togliatti, Ministro di Grazia e Giustizia, dal quale dipendeva il carcere di Schio, che inoltre era nello stesso tempo segretario del Partito Comunista Italiano. 
Li ricevette in via Arenula, allora sede del Ministero, il segretario del Ministro, Massimo Caprara. Il Ministro della Giustizia incaricò la Direzione del partito di provvedere e su richiesta della direzione del partito i tre partigiani, coautori dell’Eccidio, vennero aiutati dall’organizzazione del PCI a rifugiarsi a Praga. 
Durante una visita a Praga di Palmiro Togliatti e Massimo Caprara essi ebbero un incontro casuale e ringraziarono per averli aiutati. 
Di questo episodio Caprara, che materialmente accolse e trattò con gli omicidi per conto del Ministro Togliatti, fece una dettagliata descrizione in un suo famoso libro. 
Nel 1946 il Ministro Palmiro Togliatti fece approvare una amnistia a favore dei crimini di guerra commessi da entrambe le parti in causa e ne beneficiarono anche gli autori dell’eccidio. 
 
Una strage di Stato 
L’Eccidio di Schio ha tutti gli elementi per essere considerato “Una Strage di Stato“: 
 
Le vittime erano incarcerate e nella potestà dello Stato. 
Gli autori della strage erano persone inquadrate militarmente, i partigiani infatti erano stati riconosciui come corpo combattente, e la “polizia ausiliara” vieppiù era un organo dello stato. 
Gli autori della strage godettero dell’appoggio e della complicità del Ministero di Grazia e Giustizia che provvide a proteggerli e farli espatriare. 
Le pubbliche autorità per lunghi anni trattarono con fastidio i superstiti e i famigliari delle vittime, che a tutti gli effetti erano vittime dell’autorità e perciò imbarazzavano l’autorità stessa. 
Ed un pò essi imbarazzano ancora e si cerca di impedire l’accertamento preciso dei fatti. 
 
Morti sul posto 
Teresa Amadio, anni 41, operaia tessile. 
Teresa Arcaro, anni 45, operaia tessile. 
Dr. Michele Arlotta,anni 62, Primario dell’ospedale di Schio. 
Irma Baldi, anni 20, casalinga. 
Quinta Bernardi, anni 28, operaia tessile. 
Umberto Bettini, anni 40, impiegato. 
Giuseppe Bicci, anni 20, impiegato. 
Ettore Calvi, anni 45, tipografo. 
Livio Ceccato, anni 37, impiegato. 
Maria Dal Collo, anni 56, casalinga. 
Irma Dal Cucco, anni 19, casalinga. 
Anna Dal Dosso, anni 19, operaia. 
Antonio Dal Santo, anni 47, operaio. 
Francesco De Lai, o Dellai Francesco, anni 42, operaio tessile. 
Settimio Fadin, anni 49, commerciante. 
Mario Faggion, anni 27, autista. 
Severino Fasson, anni 20, calzolaio. 
Fernanda Franchini, anni 39, casalinga. 
Silvio Govoni, anni 55, im piegato. 
Adone Lovise, anni 40, impiegato. 
Angela Irma Lovise, anni 44, casalinga. 
Blandina Lovise, anni 33, impiegata. 
Lidia Magnabosco, anni 18, casalinga. 
Roberto Mantovani, anni 44, segretario comunale. 
Isidoro Dorino Marchioro, anni 35, commerciante. 
Alfredo Menegardi, anni .., capostazione. 
Egidio Miazzon, anni 44, impiegato 
Giambattista Mignani, anni .. , capitano di fanteria. 
Luigi Nardello, anni 35, cuoco. 
Giovanna Pangrazio, anni 31, impiegata. 
Alfredo Perazzolo, anni 29, meccanico. 
Vito Ponzo, anni 58, commerciante. 
Giuseppe Pozzolo, anni 46, impiegato. 
Giselda Rinacchia, anni 25, operaia. 
Ruggero Rizzoli, anni 51, maggiore. 
Leonetto Rossi, anni 20, studente, milite della stradale. 
Antonio Sella, anni 60, farmacista. 
Antonio Slivar, anni 65, pensionato. 
Luigi Spinato, anni 36, portiere. 
Giuseppe Stefani, anni 63, impresario. 
Elisa Stella, anni 68, casalinga. 
Carlo Tadiello, anni 22, studente, ufficiale GNR. 
Sante Tommasi, ani 53, impiegato. 
Luigi Tonti, anni 48, commerciante. 
Francesco Trentin, anni 53, invalido, operaio tessile. 
Ultimo Ziliotto, anni 38, impiegato. 
Oddone Zinzolini, anni 40, rappresentante. 
[modifica]Deceduti nei giorni successivi per le ferite riportate 
Giovanni Baù, anni 24, commerciante. 
Settima Bernardi, anni 21, operaia. 
Arturo De Munari, anni 43, tessitore. 
Giuseppe Fistarol, anni 47, maggiore genio. 
Mario Plebani, anni 49, commerciante. 
Carlo Sandonà, anni oltre 70, pensionato ex-barbiere 
Dr.Giulio Vescovi (ex commissario prefettizio fascista). 
 
Sopravvissuti 
17 sono stati feriti ma non uccisi: 
Luigi Bigon, anni 42, rappresentante. 
Antonio Borghesan, anni 19, elettricista. 
Giuseppe Cortiana, 
Maria Dall’Alba, anni 23, casalinga. 
Anselmo Dal Zotto, 
Guido Facchini, 
Giuseppe Faggion, 
Mario Fantini, 
Anna Maria Franco di anni 16, 
Emilia Gavasso, anni 49. 
Carlo Gentilini, anni 38, ingegnere. 
Emilio Ghezzo, 
Olga Pavesi, anni 42, casalinga. 
Calcedonio Pillitteri, 
Arturo Perin, 
Rino Tadiello, 
Rosa Tisato. 
 
13 restarono illesi: 
Giovanni Alcaro, 
Bruno Busato, 
Pietro Calgaro, 
Diego Capozzo (ex vicecommissario prefettizio fascista)
Augusto Cecchin, 
Alessandro Federle, 
Vittorio Federle, 
Agostino Micheletto, 
Umberto Perazzolo, 
Caterina Sartori, 
Ferrj Slivar, 
Alfredo Tommasi, 
Basilio Trombetta.