10 Dicembre 2017
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Nota dell'Autore Ninni Raimondi: 
Questa è un'opera giovanile, composta intorno ai tredici/quattordici anni. 
Viene pubblicata così come rinvenuta, con errori, ripetitività, ridondanza, ecc. a dimostrazione che "nessuno nasce imparato" (Cit. Totò) 
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Era il giorno del mio compleanno: uno di quei giorni con i soliti regali, festeggiamenti. Era stata organizzata proprio una festa, anche se non saprei dire in quale modo. Una di quelle cene tra moltitudini di amici, parenti, amici degli amici, conoscenti dei parenti...  
Si sarebbe svolta in un paesino dal nome oscuro alle mie conoscenze geografiche. Quel giorno ero terribilmente stanco, avevo una sfumatura di spossatezza e una cena non sarei riuscito a sostenerla. Organizzai comunque le valigie, prendendo un paio di camicie, un pantalone, un pigiama, alcuni indumenti intimi e un paio di mocassini (nuovi...); richiusi la borsa, avviandomi verso la porta.  
Ero troppo stanco per guidare senza rischi. Ero uscito sul pianerottolo e pensai dentro di me che tutte quelle valigie? Perché'? Fui interrotto dal telefono e velocemente aprii la porta appena chiusa, e risposi, udii la voce che tra tintinnii di bicchieri e chiacchierii di gente riuscì a dirmi che la cena avrebbe avuto luogo nel paesino di... Improvvisamente cadde la linea, schiacciai ripetute volte i due pulsantini per il ripristino ma poi riattaccai, sbalordito dalla singolare telefonata.  
Ancora non capivo il perché' della festa, ma soprattutto di tutta quella stanchezza. Entrai finalmente in macchina e con le mani ben fissate sul volante diedi meccanicamente un’occhiata al mio cronografo.  
Non sapevo quale potesse essere la meta del mio viaggio ma, e ciò era alquanto sconcertante ed irrazionale, appena schiacciai l'acceleratore fui letteralmente (non so in che modo) 'condotto' fino a raggiungere una stradina tortuosa di montagna, alberata, della quale non sapevo neanche l'esistenza.  
La situazione nella quale mi trovavo non era concepibile e ad approfondire l’assurdità dei momenti che stavo vivendo, c'era la stanchezza e un'insolita, ma non per questo sgradevole, atmosfera da notte estiva. Ero troppo stanco per riflettere e dovevo anche tener conto dei numerosi bivi che incrociavano spesso la mia strada.  
Era anormale la mia stanchezza e il fatto di non ricordare il nome di questo paese che, peraltro, secondo la guida stradale neanche esisteva. Quell'insolita atmosfera indeterminata, mi disorientava molto, ma tutto forse era pilotato dal destino.  
 
Giunsi in una piazzetta fronteggiata da alcune casette che facevano parte del medioevale labirinto formato dai viottoli. Un gatto si fermò sul marciapiede guardandomi mentre arrancavo ad estrarre le valigie dal cofano della macchina.  La luna compariva incerta dietro le case, contribuendo a formare delle ombre spettrali. Sulla facciata di una casa erano presenti due bandiere incrociate e supposi, senza un preciso perché', che fosse la casa del sindaco.  Lungo il viale, sovrastato da un'arcata naturale formata dalle chiome di secolari querce, si raggiungeva un singolare albergo antico, con un cortile-parcheggio dell'area, senza esagerare, di quattro metri quadrati, riparato da un muretto alto circa un metro sul quale giacevano rose appassite, dimenticate dal personale.  Dall'altra parte della strada, tra i fitti tronchi degli alberi, intravedevo una luce più chiara di quella che illuminava il "lato sinistro". Incontrai due persone al di là della strada, forse miei conoscenti, che mi salutavano e furono per educazione in parte ricambiati.  
Poi mi guardarono in modo inquietante, inespressivo, e ci fermammo in attesa di non so cosa. Una era una bambina piccola con una cuffia buffa e esageratamente colorata, ed era tenuta per mano da una persona adulta: entrambe mi guardavano ed il loro accennato sorriso si affievolii tramutandosi in una espressione interrogativa.  Si voltarono e continuarono la loro passeggiata su quello che avrei potuto definire il lato chiaro. Dopo questo incontro proseguii e arrivai nell'atrio dell'hotel dove fui accolto nel migliore dei modi anche se avrei solo voluto chiedere informazioni.  Mi fecero accomodare ed entrai nella hall. Una lampadina fioca senza lampadario illuminava, per modo di dire, quella simpatica stanza triangolare composta da un bancone della reception e due poltrone rovinate e vinte da una lunga battaglia col tempo.  
 
L'unico comfort che offriva la hall, credo fosse proprio la lampadina. Salutai un cameriere e mi arrampicai sugli scalini di una scalinata buia intaccata dall’umidità, che aveva l'aria di un cunicolo angusto. Giunsi in un luogo più ventilato che pareva una porcilaia e quando il vento soffiava nella mia direzione ne aveva anche l'odore... C'era un grande ciottolato di pietre e tra le giunture spuntavano ciuffetti d'erba che tappezzavano l'area interna del cortile. Signore incipriate e profumate, a braccetto si sventagliavano e si raccontavano le ultime pettegolerie e osservandomi coprivano un timido sorriso con il ventaglio.  
Arrivai nel centro di questo cortile con la sciarpa bianca che volava per la brezza insieme ai risvolti della giacca di sartoria nera, la camicia azzurra chiara e i pantaloni neri. Sotto i portici che percorrevano l'intero perimetro di quest'area quadrata altra gente, freneticamente, usciva da delle porte.  
Sopra ogni porta notai dei numerini, dall'uno al quarantadue: erano gli alloggi. Diedi un’occhiata alla chiave che l'ometto della reception gentilmente mi aveva dato e feci col numero in mente una panoramica delle stanze. Salutai, mentre mi avviavo verso quella che sarebbe stata la mia stanza, un anziano ed elegante signore.  
La stanza era rettangolare e un letto arrangiato alla meno peggio con una coperta ingiallita e striminzita mi faceva riflettere sulla differenza che esisteva tra lo squallore assurdo di alcuni ambienti e l'eleganza a volte molto gradevole, delle persone che qui si possono incontrare.  
Il soffitto era una volta raffinata a botte incava dove, all'apice, contraddistinsi anche una vecchia botola. Mentre sistemavo nell'armadio i miei abiti, mi venne in mente che ero in quell'insolito hotel per festeggiare il mio compleanno. 
I miei anni iniziavano a pesarmi e un altro anniversario, specie se come quello di quest'anno, non l'avrei retto. Tolsi la giacca e la appesi a un manico credo di scopa, che sporgeva da un buco rudimentale fatto nel muro.  
Aprii per ordinare un po' un armadio (l'unico) che era la cosa più degna della camera. Vi erano delle stampelle ma ciò che più mi incuriosì era una scala. La tolsi da quell'armadio che, consentitemi, era troppo basso per contenere quella scala così alta.  
Realizzai che qualcosa non andava per il verso giusto ma forse era la stanchezza, che ancora del tutto non era svanita, e che mi faceva fraintendere tutto. Mentre avevo riposto nell'armadio quel numero esagerato di calze, camicie, giacche, trovai che sarebbe stata una serata un poco diversa da quelle altre che, per vari motivi, stavo trascorrendo in solitudine.  
Improvvisamente fui colto alla sprovvista dalla porta che di colpo si aprì e presi senza esitazione il coltellino a serramanico che, un po' per sicurezza personale, un po' per il mio hobby, porto sempre fedelmente con me.  
Mi girai con il volto spaventato ma tenace nello stesso tempo verso quegli sgangherati battenti, chiedendomi come avesse fatto ad entrare dalla porta chiusa (se pure esisteva qualcuno che era entrato). 
Sulla soglia della mia stanza numero sette, c'era un ometto vispo, con la mano davanti agli occhi per schermarsi da una luce solare estiva.  
Gli chiesi cosa volesse. Vestiva uno scialbo ma pulito smoking e rispose alzando un ditino con l'intenzione di chiedere scusa dove fossero le sale da pranzo.  
 
- Ehm... domando scusa per la maniera in cui mi sono presentato ma, cortesemente, saprebbe indicarmi la posizione delle sale da pranzo? - (la luce solare così forte!) - Io, non saprei, anch'io avrei una cena stasera e purtroppo ancora non mi sono informato... sa...  
-. Ero un po' imbarazzato per il coltello che ancora tenevo in mano, quando l'ometto allora se ne andò dandomi un laconico "arrivederci e grazie". Io rimasi anche divertito da quell'allegro ometto, anche se ebbi non so perché' un lieve giramento di testa.  
Pensai, abbandonando quei "rimugini mentali", che l'ora fosse tarda (la luce solare così forte!) e lo era! Mentre ebbi finito di sistemare la valigia pensai che sicuramente c'era una piccola cosa che aveva scombussolato tutti gli ultimi istanti che avevo trascorso.  
Un particolare, forse impossibile, che non riuscivo a ricordare. Rimasi indifferente, con la voglia di saperne di più, con lo stesso sguardo interrogativo e dubbioso dei due personaggi incontrati sul lato chiaro del paese...  
Mi rinfrescai nel bagnetto sciacquandomi il viso stravolto dalle situazioni degli ultimi tempi. "Aspetta, non aver fretta, pazienta", era il motto di quell'imbranato del mio istruttore di sub quando prendevo le prime lezioni ed avevo l'ansia e la foga tipica dei principianti...  
Anche in quei minuti, nei quali ero inquieto non ebbi fretta, pazientai... e ancora non sapevo della festa, forse protagonista, quasi marionetta appesa ai fili del divertimento di qualche Dio. 
Ero cresciuto con la convinzione degli Dei: certo, poteva considerarsi una fede, un qualcosa in cui credere, ma non era un vero credo. Pensavo che fossero loro i responsabili di tutto, del bene, del male, della vita della morte e di tutto ciò che ha un opposto come il Si ha il No, come il ricordare ha il dimenticare...  
Me li immaginavo onnipotenti, ma fisicamente uguali a noi. Ero riuscito a cadere in quel fatale interrogativo, in quel misterioso questionario a cui prima o poi bisogna darsi una risposta: C’è qualcuno al di sopra di noi? Esistiamo solo noi?  
Non lo sapevo, non lo so, nessuno per ora lo sa per certo. Mi ero recato spesso in Grecia sia per studiare la lingua che per la pesca subacquea e per formarmi un’opinione più completa sui miei beniamini Dei. Non importava se erano frutto di scrittori fantasiosi quanto intelligenti: io pensavo a quelle appariscenti figure perfette, che non sbagliavano mai, nel bene e nel male...  
Come quand'ero ragazzino e pensavo troppo, pensavo a ciò che non dovevo pensare, immaginavo di avere un dialogo con "loro" oppure riflettevo su storie assurde come quella dell'uomo che era giunto al suicidio poiché' non era mai riuscito a vivere tranquillo: ogni cosa che egli pensava infatti, in qualunque luogo fosse, si materializzava negli occhi.  
A ciò pensavo negli oceani quando mi immergevo ed ero felice poiché' finalmente avevo la pace che volevo mi chiudevo in me stesso con il mio uomo dagli occhi che riflettono i pensieri, con gli Dei. E oggi mi trovavo a un inutile, scocciante, festa di compleanno. 
In uno specchio con venature che sapevano di vecchio, di logorato, vidi riflesse contemporaneamente la scala che avevo tirato fuori dall'armadio e la botola sul soffitto. Capii che avevano un nesso, un collegamento e immediatamente presi la scala e la appoggiai con calma alla cavità che ospitava la botola.  
Più che scoperta quella fu una vera e inaspettata assurdità infatti, quando sollevai la botola, capii che era parte del pavimento del piano sovrastante... Dagli odori che giungevano da lassù pensai che fosse proprio la sala da pranzo. Avevo atteso da tanto qualche indizio e la sala da pranzo di quel sempre più stravagante hotel era proprio sopra la mia testa!  
 
Poi scesi con cautela appoggiando uno dopo l'altro i piedi sui pioli. Mi venne voglia di cercare l'omino dallo smoking scialbo per dirgli che avevo trovato la sala da pranzo. Ma certo, l'omino! Ecco il particolare inverosimile che non riuscivo a ricordare...  
Sorpreso scavalcai il letto per ricreare la situazione e ricordai che quando egli aprì la porta entrò una luce potente mattutina (la luce solare così forte!) quindi, credendo di aver trascorso dodici ore in uno schiocco di dita o di essere pazzo, aprii la porta per rasserenarmi (o per spaventarmi ulteriormente) e vidi tutto tranquillo, normale: tutto in un contesto notturno.  
Ora volevo parlare con gli Dei, volevo che mi rassicurassero, che mi dicessero che quel pesce strano, assurdo non esisteva, come nel mare, in profondità, quando vedevo qualche barracuda o pesce cane e dovevo fuggire lentamente... troppo spaventato. 
Mi distesi sul letto, e pensai, pensai... - Cosa fai, pensi ancora? - mi diceva ogni tanto mia madre, - uffa... no mamma te lo assicuro ti ricordi? ti ho promesso di non impegnare troppo la testa... - e invece stavo di nuovo pensando, o facevo la mia immaginaria chiacchierata con gli Dei.  
Poi scesi dal letto, infilai la camicia nel pantalone, la cintura. Anche lo stomaco, nonostante le strane cose che accadevano, (forse solo gli Dei che si divertivano) si lamentava e avvertivo un po' di fame... Di sopra in quella camera che con grande divertimento avevo scoperto essere la sala da pranzo, già molte persone stavano consumando forse l'ultimo pranzo della loro pensione completa. Tra me e me pensavo a tutt'altro, forse una mente ritornata fanciulla.  
 
Agli Dei, all'hotel e intanto stavo accostando la scala all'incavo dell'alloggio della botola. Abbandonai tutti i molteplici pensieri che affollavano la mia mente e salii pronto (o impreparato) ad affrontare la cena. 
Avrei preferito trascorrere quest'anniversario con la mia muta blu scuro "Ass" in qualche inesplorato fondale serpeggiando stanco, cullato dalle correnti ad inseguire eserciti di pesciolini che fanno ritorno in qualche scoglio tappezzato di spugne.  
Ma la realtà era quella: trascorrere la serata nella pensioncina di un paese distrutto, ed essere festeggiato in una confusa cena. Dei.  
Nonostante non sapessi come comportarmi di fronte ad una situazione così demenziale quanto assurda feci il gesto più elementare che avessi potuto fare: aprii la botola, arrancai e salii in quella raffinata quanto 'odorosa' sala da pranzo. Stupito: fiumi, laghi, mondi, ma soprattutto Dei. 
Tutti, o almeno le persone adiacenti all'uscita, credo avessero trovato la mia comparsa in quella stanza da pranzo alquanto normale, allora più rassicurato senza paura (più vergogna che paura) iniziai, rimettendo a posto la botola, a rendermi conto della zona in cui mi trovavo.  
Superato quel punto della stanza, fra quei due tavoli imbanditi, cercai di guardare la fine della stanza e, corrugando la fronte, mi accorsi che la sala da pranzo non era un corridoio (enorme per l'esattezza e con un altissimo soffitto a travi massicce) bensì un "quadrato" senza entrata, eccetto le botole sopra ogni camera.  
Mentre mi incamminavo alla ricerca del mio tavolo mi stavo complimentando, in mente mia naturalmente, con l'organizzatrice (se pur esisteva un'organizzatrice) di questa impossibile cena anche se, ripensandoci... alla cena ancora non ero arrivato...  
Avevo percorso un intero lato della sala quadrata, facendo una veloce gimcana fra le coppie sedute a quei bei tavoli. Avevo abbassato la testa così senza motivo e avevo colto l'occasione per osservare i mocassini che avevo comperato.  
Davvero molto belli. In quel momento alzai la testa, mi trovavo a dover voltare obbligato dalla svolta del perimetro dell'insolito "corridoio" quadrato perpetuo: si delineò dinanzi a me un altro lungo lato-corridoio incrociai un cameriere che si scusò per avermi involontariamente urtato, ma io ero preso da qualcosa di più insolito dell'entrata in questa sala: una tavolata lunga, mastodontica: almeno duecentocinquanta coperti per lato!  
Ero imbarazzato: l'hotel mi offrì un'altra possibilità per misurare il mio grado di resistenza a quelle che avevo chiamato 'situazioni assurde'. Quando salii dalla mia camera, forse non mi ero reso conto delle dimensioni di quel 'corridoio', adesso ne ero fin troppo cosciente. Supposi che il mio tavolo fosse proprio quel kilometro di sedie, piatti e posate.  
Finalmente presi posto, dirimpettaio di una tavola che si sfumava sino all'angolo della svolta. Impiegai buoni dieci minuti per raggiungere questo posto e la fame si faceva sentire. Le sedie erano confortevoli, dietro di me c'era una finestra che dava su un'area esterna dell'hotel, numerosi quadri ornavano con gusto quelle pareti.  
Scene di caccia, volpi inseguite da branchi di cani, cacciatori in posa con la speranza di recuperare qualche malcapitato uccello e un enorme squalo-tigre, stavo osservando i particolari di quell'esemplare quando, dopo un inconfondibile "placet" la luce scomparve.  
Restai seduto a guardare in quell'insolita aria ferma e calma, ad osservare le luci al neon di sicurezza che prendevano il posto delle tradizionali lampadine, spente, dei lampadari.  
Quando dopo trenta secondi, durante i quali non so perché' pensai alle tasse che dovevo pagare, le luci si riaccesero mostrando di nuovo quella strana e dubbiosa aria, ma una grande sorpresa mi stampò un sorriso sulle labbra e allontanò i pensieri dalla mente.  
 
Durante quei trenta secondi, tutti gli invitati avevano preso posto! E li trovai seduti a quegli indeterminati posti: iniziò allora un forte chiacchierio... 
Vicino a me, stranamente non era seduta gente di mia conoscenza, e ciò era abbastanza strano, o comunque non era una cosa solita.  
Si, d'accordo, tutta gente buona, rispettabile, parlando in questi termini, ma i parenti? Gli amici? In quel tavolo così immenso e dispersivo... beh... era difficile cercarli e, un po' deluso, tornai a guardare vicino a me: una stupenda ragazza e un uomo anziano.  
Mi alzai in piedi, guardai lì, in lontananza e affrontai un banale, scocciante e ripetitivo discorso, accogliendo una reazione scontata quanto abituale: un rumoroso e vigoroso applauso, tornando a sedere con un sorriso che si perse in uno sguardo inespressivo diretto al piatto di ceramica in cui il mio volto si rispecchiava.  
Una musica in quell'aria lontana, così calda e così misteriosamente gelida, risuonava delicata. Iniziai a parlare del più e del meno, per quello che la mia timidezza mi permetteva di dire...  
La ragazza appassionante, di una estrema femminilità mi rivelò che erano stati loro, avendo conosciuto amici del proprietario, ad attuare lo scherzo del black- out, comparendo poi misteriosamente. Uno sguardo frettoloso al mio cronografo, uno al menu, quando la ragazza lo posò delicatamente sul tavolo e intraprese un delicato interrogatorio.
 
Le Cronache 
   Krenneg McAff 
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