Vado via
19 Maggio 2017
Tra scalini d'inesauribile vita, ripercorre il ricordo uno spettro pargoletto d’antica data mentre incontra un’anima di un giovinetto appena deceduto. 
 
“Come sei morto giovane parte spirituale?” – chiese il bambino - “M’ingozzavo di droga, bevevo e fumavo, come del resto avviene nella maggior parte dei giovani viventi, ma Dio (anche se non gli prestavo fede) mi ha perdonato!”  
E il bambino malcontento e inquieto replicò “E voi giovani andate al Creatore in questa maniera?” – il ragazzo pentito confermò – “Disgraziatamente accade, c’intrappoliamo la mente in una scatola cinese e non possediamo più vita sicura.”  
Con un gelido sospiro il bimbo accostò le mani al ragazzo e con distensione vocale pronunciò – “Ai miei tempi, la morte era reale, dolorosa ma naturale, giornaliera ma priva di bassezza. Ora ti racconto il mio sonno eterno, ascolta…  
Ricordo le uccisioni degli ingiusti, gettati nella cavità senza fine del Castello, il continuo cambio di bandiera, l’incessante susseguirsi della vita e della morte. 
Il tempo risultava intatto, senza attrito scivolare lungo la minuscola fessura della clessidra, con dolce sibilo di sabbia, accumularsi granulante nel silenzio. Ossa pestate dalle discendenti della guerra, il sangue polverizzarsi in terra, e tra scalpitii di zoccoli irrequieti vagava senza meta l'esercito con ferraglie sonanti e il vento di scirocco lacerare in ruggine gli scudi. 
Oltre il confine tra cielo e terra rombi di cannonate deformare le nubi appena appena sopra, e riecheggiava ancora le ultime grida della morte.  
Che epoche, io fanciullo già con la coppola saltellare miserabilmente scalzo sui tersi lastroni della piazza mentre giungeva azzimato mio padre per farsi lo strascico dei passi lungo il corso. Mia madre barbuta avvolta d'oriente, a smerciare rape sotto lanterne di grasso di porco, spidocchiandomi e reggendo sottobraccio il domani.    
Quel prossimo giorno con l'asino alle fontane infette, lungo brodose strade di massi e di terra, tra sterpi e fichi d’india, il borgo di cicale ci agitava sempre il foulard.  
A sera il ritorno viveva nella nostra casa, intricata di vite e di porci, sui nostri giacigli di paglia tra pianti di stalle c’erano le stelle ignoranti.  
Digiunando appendevo i miei sensi sul pane in cima alla mensola, così distanti i capricci infantili, e quindi restavo in attesa dinanzi all’uscio della benestante Zia, a volte mi apriva, a volte miagolavo.  
Io, piccino dai dorati riccioli, dai turchesi occhi, sgambettavo, vestito da una camiciola, tra i catorci in ricerca dell’abbraccio dei miei creatori. 
Ricordo la mia malattia, il vivere gemente, successivamente il mio letto, il mio medico, il mio prete.  
Quel pianto dei miei familiari, la febbre tra le candele accese, la stretta di mano a mia madre, la sofferenza fisica mi accennava la lievitazione mentre percepivo altre voci bisbigliare di gente ormai defunta. Dissi piano “Che cosa succede Mamma?”.  
Morire alla spalla del padre e crollare implicitamente tra le braccia della madre. E poi il silenzio, soltanto l’incomunicabilità.  
Osservare il mio corpicino dormiente nella cassa fermata con chiodi, il riprendersi della famiglia.  
E adesso che di me resta un biancastro spettro di seta dai passi sfumanti, non mi resta che strisciare e strillare acutamente tra le mie mura trasportandomi fulmineamente lungo gli scalini di questa dimora, giocando con i miei compagni (anche loro morti per infame fato).  
Trascorro tempi notturni accovacciato con mia madre, accarezzando e lambendo i nostri russanti discendenti, all'oscuro della verità…”  
Dopo il racconto, lo spirito bambino, si sedette impercettibile accanto al suo discendente vivente ignaro, davanti al computer e lo fissò.  
Riprese – “Ecco cos’è la morte, la chiarezza della misteriosa vita”.  
Il giovane ragazzo impietosito pianse, mentre tentò senza successo di spostare il cursore con il mouse e di digitare sulla tastiera e il suo nome.  
 
Il discendente triste disse fra sé: “che solitudine, vado via”.
 
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